
A Roma le interrogazioni al capo del governo sono prevedibili, rigide, noiose: tutto il contrario di quello che succede a Londra
I regolamenti di Camera e Senato prevedono che con una certa frequenza il presidente del Consiglio vada in aula a rispondere a domande che gli fanno i parlamentari. Alla Camera il capo del governo, o un suo vice, dovrebbe rispondere almeno due volte al mese; al Senato, almeno una volta ogni due mesi. Nella pratica però non succede quasi mai. Giorgia Meloni in oltre due anni e mezzo ha partecipato al Question Time – che, in questo caso, viene gergalmente definito Premier Time – solo due volte al Senato e due volte alla Camera, dove mercoledì prossimo ne è in programma un terzo: saranno cinque, dunque, in totale. Ma come lei, tutti i presidenti del Consiglio, chi più chi meno, hanno mostrato grande riluttanza nei confronti di questo rito.
In Italia l’introduzione del Premier Time risale alla fine degli anni Novanta: nel 1997 lo adottò la Camera, due anni più tardi il Senato. Nelle intenzioni di chi lo volle, questa novità avrebbe dovuto consolidare nella prassi parlamentare italiana l’istituto del Prime Minister’s Question Time che fin dal 1961 è una peculiarità della Camera dei Comuni britannica, e costituisce forse il momento più teatrale e appassionante dei dibattiti che si svolgono nel parlamento.
Se questa era l’intenzione, però, l’intento si è rivelato fallimentare. I Question Time settimanali dei primi ministri del Regno Unito sono spesso vivaci e tesi, e anche per questo il governo li teme. Quello a cui si assiste alla Camera e al Senato di Roma è invece una cosa assai meno elettrizzante. Le ragioni hanno a che fare sia con il regolamento che li disciplina, sia con la tradizione parlamentare italiana, sia in parte con l’architettura stessa delle camere. Si tratta insomma di un rito stanco, che per lo più innesca polemiche estemporanee e di breve durata.
Il parlamento britannico prevede l’istituto del Prime Minister Question Time da quasi 64 anni. Già prima c’era l’abitudine di interrogare direttamente il primo ministro, ma si stabilirono orari e giorni fissi. L’orario è poi stato cambiato più volte: dal 2003 si svolge ogni mercoledì tra mezzogiorno e mezzogiorno e mezzo. A meno che non ci siano sospensioni dell’attività parlamentare, o salvo nei casi in cui il primo ministro è impegnato per missioni all’estero, è un appuntamento fisso e immancabile, senza dubbio il più atteso dai cronisti parlamentari e dagli appassionati di politica.
Ma a parte la frequenza il Premier Time britannico è molto diverso da quello italiano per la sua imprevedibilità. Ogni giovedì a Westminster (il palazzo in cui ha sede il parlamento) si celebra il rito dello shuffle: un sorteggio che stabilisce quali saranno i 15 parlamentari, tra i tanti che si sono registrati, che potranno porre domande al primo ministro, e in che ordine. Abitualmente lo speaker, cioè il presidente della Camera, dà la parola alternativamente a membri dell’opposizione e della maggioranza. Finito questo primo ciclo c’è la fase più significativa del dibattito: il leader del principale partito di opposizione può fare fino a 6 domande consecutive al primo ministro; altre due domande sono solitamente riservate al leader dell’eventuale altro partito di opposizione. Soprattutto, il primo ministro britannico non conosce le domande in anticipo.
Ne viene fuori un botta e risposta serrato tra il capo del governo e i suoi principali avversari che si concentra sui temi dell’agenda politica, ma più spesso contiene anche frecciatine e battute, commenti insinuanti come quello che nel maggio del 1979 il Laburista Stanley Clinton-Davis rivolse a una 54enne Margaret Thatcher, al suo debutto nel Question Time: «Nel rispondere alle domande, potrebbe per favore non essere troppo stridula?». Ovviamente, anche al primo ministro è consentito rispondere in modo sprezzante, in questi casi.
Nel luglio del 2020 il primo ministro Boris Johnson, nel difendersi dal leader dell’opposizione Keir Starmer che lo incalzava, lo accusò di avere «più flip-flop della spiaggia di Bournemouth» (un gioco di parole molto efficace: con flip-flop ci si riferisce sia alle infradito da spiaggia, sia in modo gergale ai ripensamenti e voltafaccia). Starmer replicò rinfacciando a sua volta le incoerenze di Johnson, facendo un malizioso riferimento alla sua precedente attività di giornalista: «Questo è l’ex editorialista che scriveva due versioni di ogni articolo che pubblicava» (un riferimento alla voce secondo cui Johnson avrebbe preparato due diversi articoli di opinione prima di schierarsi su Brexit, uno a favore e uno contro, scegliendo poi quale pubblicare in base a calcoli politici).
Nel frattempo anche gli altri parlamentari, da un lato e dall’altro, commentano e intervengono con brusii, urla o con battute salaci. È rimasta celebre quella che il Laburista Gerald Kaufman fece nel febbraio 1990 mentre una sua collega di partito, Joan Ruddock, contestava la reazione avuta da Thatcher dopo la diffusione della notizia della liberazione di Nelson Mandela. «Se la prima ministra avesse appena trascorso 27 anni in prigione…», iniziò a dire Ruddock. E Kaufman, intromettendosi: «…come avrebbe dovuto».
Il Question Time è spesso un momento in cui i leader e le loro ambizioni vengono misurate anche sulla base della prontezza nel rispondere, dell’estro, dell’abilità retorica. Tony Blair, uno molto forte al Question Time, disse una volta che sottoporsi a quell’esercizio del mercoledì era un po’ come andare dal dentista per un’estrazione.
L’imprevedibilità è insomma il fattore determinante e più interessante del Question Time britannico: in Italia è tutto il contrario.
Le domande da porre al capo del governo vanno depositate almeno il giorno precedente a quello della seduta: in questo modo le risposte del o della presidente del Consiglio vengono scritte dai suoi funzionari, spesso in modo asettico. L’interrogante prende la parola e pone la sua domanda; il presidente del Consiglio risponde; l’interlocutore ha facoltà di replicare brevemente per dire se si ritiene soddisfatto oppure no, e perché. Tutto avviene in maniera rigida e irreggimentata, e senza grosso spazio per l’improvvisazione.
Mercoledì scorso per esempio Meloni si è parecchio risentita di fronte all’atteggiamento di Matteo Renzi che, partendo dalla domanda formalmente annunciata («si chiede di sapere quali siano le riforme che il governo ritiene ancora fondamentali e che intende realizzare entro la fine della legislatura»), ha fatto in realtà un intervento piuttosto ficcante e provocatorio, per evidenziare certe incoerenze tra la propaganda di Meloni e le sue scelte da presidente del Consiglio. «Giorgia è una che studia, ma che arriva con la lezioncina imparata; se sparigli, va in difficoltà e si innervosisce, com’è accaduto», ha spiegato poi Renzi. E in effetti nella sua replica, Meloni si è indispettita un po’: «Francamente – ha detto – mi è sfuggita la domanda».
Ma un’altra differenza sostanziale tra il Premier Time italiano e quello britannico ha a che fare proprio con il modo in cui sono fatte le camere dei due parlamenti, con la loro architettura. Nella Camera dei Comuni di Westminster maggioranza e opposizioni sono sedute di fronte, come due schieramenti perfettamente contrapposti: di qua gli uni, di là gli altri. Il primo ministro e il capo dell’opposizione sono in prima fila, a pochi centimetri l’uno dell’altro.
A Roma, sia alla Camera che al Senato, la struttura dell’aula è quella dell’emiciclo, e al centro c’è il presidente del Consiglio, seduto tra i banchi del governo. I suoi interlocutori, soprattutto alla Camera, parlano dai loro scranni, a molti metri di distanza. Inevitabilmente, anche l’immediatezza e la vivacità del dibattito ne risentono.