L’interpretazione dei segni. Eco e la semiotica, non solo linguaggio

0
1.863 Numero visite

In edicola «Il nome della rosa», primo volume della serie dedicata all’intellettuale Perché prima della narrativa (e dopo) ci furono i trattati. E lo studio degli idiomi

di DONATELLA DI CESARE

«Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita…». È la scena iniziale del romanzo Il nome della rosa. Il francescano Guglielmo da Baskerville e il suo discepolo Adso da Melk seguono i ripidi tornanti, sul pendio degli Appennini italiani, per raggiungere l’abbazia benedettina a cui sono diretti; ma si arrestano d’un tratto di fronte alle tracce che si disegnano sulla neve. Guglielmo da Baskerville comincia allora a dare prova del suo profondo acume, della sua penetrante sagacia, nel decifrare e interpretare indizi, parole, prove. L’enigma che si cela dietro l’orribile sequenza di delitti efferati sarà risolto grazie alla sua intelligenza e al suo sapere.

17-15671362-U43010920870222nNI-117x140@Corriere-Print-Nazionale-U43060584597655afE-U43160788274919BZE-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443
Umberto Eco mentre sfoglia un volume alla mostra internazionale dei libri antichi a Milano nel 2014 (Fotogramma)

Il discepolo lo ricorda, d’altronde, come un fine lettore, capace di riconoscere i segni con cui il mondo ci parla come un grande libro. «Durante il periodo che trascorremmo all’abbazia gli vidi sempre le mani coperte dalla polvere dei libri, dall’oro delle miniature ancora fresche… Pareva che non potesse pensare se non con le mani». È il ritratto di Guglielmo da Baskerville — ma potrebbe essere anche il ritratto di Umberto Eco.

Icona della cultura, autore di bestseller, Eco ha raggiunto la fama mondiale grazie ai suoi romanzi: Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, via via fino agli ultimi, Il cimitero di Praga e Numero Zero. Complessi, labirintici mondi, costruiti magistralmente nel gioco di verità e finzione, si dischiudono al lettore affascinato dall’intrico della trama, incantato dal rebus che si cela ovunque, chiamato perciò a interpretare febbrilmente quella realtà enigmatica. L’uomo — come dice Aristotele — è l’animale che possiede il logos, il linguaggio, che parla e che interpreta. Eco lo sapeva bene. Molti anni prima di dedicarsi alla narrativa, a cui approdò relativamente tardi, era noto già da decenni come semiotico e filosofo del linguaggio. Al 1968 risale La struttura assente, al 1975 il Trattato di semiotica generale, al 1979 Lector in fabula. Furono questi studi a preparare il terreno per i racconti. Sarebbe in tal senso sbagliato tenere separata la saggistica di Eco dai suoi romanzi, perché il nesso è strettissimo. I romanzi sono la trasposizione narrativa dei temi trattati nelle opere teoriche. Certo, si può leggere Il nome della rosa anche senza conoscere la riflessione filosofica di Eco; ma addentrarsi negli arcani dell’arte interpretativa, imparare a decifrare i segni, muta decisamente la lettura.

Siamo abituati a credere che ci sia un soggetto che conosce il mondo attraverso il pensiero puro. È il modello diffuso da Cartesio, ma anche da altri filosofi, che lascia fuori il linguaggio e i segni. Il pensiero, però, è sempre impuro, sempre già concreto e materiale — perché è mediato dal linguaggio e da molteplici, differenti segni. Così, se ci orientiamo nel mondo, se possiamo conoscerlo, è perché il nostro è un mondo di segni — segni che interpretiamo, che produciamo, che trasformiamo. Eco fondò la sua semiotica senza mai dimenticare che — come suggerisce la provenienza greca della parola semeiotiké — l’«arte dei segni» vantava una lunga tradizione, rimasta tuttavia minoritaria. Erano gli anni della «svolta linguistica», quando il linguaggio, relegato per secoli ai margini, assumeva un ruolo centrale nella filosofia. Punto di riferimento era, anche in Italia, lo strutturalismo di Saussure, insieme a quello di Jakobson e di Hjelmslev. Nello studio dei segni Eco non era isolato e trovò presto, come compagni di cammino, filosofi e linguisti, da Emilio Garroni a Tullio De Mauro. Ma erano anche gli anni in cui si andava affermando l’ermeneutica filosofica di cui Luigi Pareyson, a Torino, era un prestigioso esponente. Eco si formò alla sua scuola.

Lo studio dell’estetica si ampliò presto in una riflessione su tutte le forme della creatività. Accanto a Pareyson, maestro di interpretazione, si scelse, però, quello che chiamava il suo secondo maestro, il filosofo americano Charles S. Peirce, uno dei pionieri della semiotica. Da lui Eco ha ripreso la «semiosi illimitata», l’idea che i segni, tra cui ci muoviamo, non sono statici, ma sono legati al processo di interpretazione. Perciò possono essere reinterpretati e riformulati continuamente, un segno grazie all’altro, in un rinvio infinito. Nello spazio di questo rinvio, in questo margine di gioco, si situa per Eco la nostra creatività. Il che non vuol dire che ogni interpretazione sia giusta e legittima. Al contrario, l’inganno è sempre in agguato. I limiti dell’interpretazione è il saggio dedicato a questo tema nel 1991. Eco era convinto — e lo ribadì nel volume Semiotica e filosofia del linguaggio, uscito nel 1985 — che il segno linguistico non dovesse essere il «modello semiotico», non dovesse avere una sorta di predominio sugli altri segni. Eppure non abbandonò mai la riflessione sul linguaggio e sulle lingue. A questa riflessione si devono, anzi, i due libri più suggestivi e rilevanti della sua grande produzione: Dire quasi la stessa cosa, del 2003, un saggio sul tema forse più attuale nella cultura globalizzata, quello della traduzione, e La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, pubblicato nel 1993 e ristampato tre anni dopo.

«Fantasticare intorno alla lingua universale». Si apre con la citazione da un’opera settecentesca del filosofo italiano Francesco Soave la ricerca della lingua perfetta. Eco ricostruisce la chimera della lingua perduta, quella di Adamo, e insegue una delle più potenti utopie dell’umanità, la lingua universale. Dal grande mito della Torre di Babele, che si staglia nei versetti della Torah, ai segreti della combinatoria kabbalistica, dalla grammatica di Dante al progetto di Raimondo Lullo, che vagheggiava di costruire una lingua filosoficamente perfetta, in grado di contribuire alla concordia umana, dalle lingue magiche a quelle razionali, dai calcoli di Leibniz alle lingue internazionali, all’Esperanto — Eco accompagna il lettore in un viaggio affascinante, tra libri dimenticati e sogni mai esauriti. Perché le lingue non sono diverse solo nei suoni; articolano ciascuna una visione del mondo. Cosa c’è di più doloroso dell’incomprensione che divide il genere umano? Ma la pretesa di superare la diversità delle lingue è destinata a naufragare. E mentre ogni progetto di lingua universale si infrange, va in rovina, come la Torre di Babele, Eco ci invita, nell’età del globanglese, a riscoprire la ricchezza delle lingue storiche.

http://www.corriere.it/

 

L'informazione completa