Lavoro povero sparito nel rapporto Inps, l’economista Raitano: “Quell’analisi non fa capire quanti sono pagati troppo poco”

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“Qualunque misura della povertà si basa su giudizi di valore, perché una soglia oggettiva non esiste e i criteri possono cambiare. Di sicuro, dietro questi dati c’è un problema concettuale: non viene esplicitato che cosa si indaga e con quale obiettivo”.

Michele Raitano, ordinario di Politica economica alla Sapienza e membro dell’European Social Policy Network, ha letto con stupore le pagine dell’ultimo rapporto annuale Inps dedicate alla quantificazione del lavoro povero in Italia. Stando alle quali, come ha raccontato Il Fatto, i working poor sono solo 871.800 in tutto il Paese e quelli indigenti solo per colpa di paghe da fame (e non perché lavorano per poche ore) si fermano a 20.300.

“Per valutare quante persone guadagnano troppo poco per vivere si dovrebbe tener conto del reddito annuo”, spiega il docente, che ha fatto parte del panel di esperti coordinati da Andrea Garnero dell’Ocse incaricato dall’ex ministro Andrea Orlando di individuare soluzioni contro la povertà lavorativa. L’Inps invece, visto che l’obiettivo è confutare la necessità di un salario minimo per legge, “prende come riferimento il salario orario“. Infatti, come spiega il capitolo dedicato, vengono selezionati i lavoratori che a ottobre 2022 prendevano meno del 60% della retribuzione mediana lorda. Pari a 24,9 euro per i part time e 48,3 euro per i full time. “In questo modo però non si risponde alla domanda su quanti vengono pagati troppo poco. Ci si limita a dire quanti stanno sotto quella soglia oraria”. Peraltro solo in quel mese. Così si arriva a stimarli nel 6% del totale, mentre il rapporto finale del gruppo di Garnero li quantificava nel 24,5% tra i dipendenti permanenti e addirittura 60,3% tra i prevalentemente part-time, per un rischio complessivo di bassa retribuzione annuale pari al 31,1%.

Non solo: subito dopo gli autori del rapporto – il primo da quando l’istituto è stato commissariato dal governo Meloni – hanno depurato i dati ottenuti dai lavoratori part time, intermittenti e apprendisti, fino a ridurre la platea dei poveri a poco più di 20mila. “È ovvio”, commenta l’esperto, “che se guardi solo a chi è a tempo pieno i working poor sono di meno. Ma ci sono interi settori produttivi interamente basati sul part time e sul precariato, vedi il turismo“.

Un ulteriore problema, continua Raitano, è che nel caso italiano il 60% della retribuzione mediana – uno dei parametri di riferimento previsti dalla direttiva Ue sul salario minimo – individua un livello bassissimo, pari a circa 6 euro lordi all’ora. A fronte peraltro di “un’inflazione cumulata negli ultimi due anni pari al 17-18%”, che per effetto degli attuali meccanismi di indicizzazione non si è riflessa se non in piccolissima parte in aumenti salariali al momento del rinnovo dei ccnl. “Visto che l’obiettivo dell’analisi era ragionare sul minimo legale, si sarebbe dovuta scegliere invece una soglia di dignità sotto la quale nessuno può scendere”.

Tirando le somme, visto che il lavoro povero dipende sia dai bassi salari sia dalle poche ore di lavoro (effetto del frequentissimo part time involontario) guardare solo ai salari orari è “miope“. E impedisce di mettere a fuoco la vera dimensione del fenomeno. Che secondo Raitano va affrontato su più fronti: sperimentando un salario minimo, rafforzando la vigilanza sulle imprese e prevendendo integrazioni pubbliche alle retribuzioni dei lavoratori a basso reddito. A che livello fissare il minimo orario? “Giusto che sia anche più alto del 60% della mediana: sarebbe un segnale importante per tutto il mercato del lavoro, perché se alzi i salari stimoli un aumento della produttività e maggiori investimenti in innovazione”.

di Chiara Brusini

 

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