Disabilità e lavoro: tra smart working, specializzazione e tecnologie digitali

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In questo lungo dialogo con Veronica Mattana abbiamo approfondito problemi e prospettive dell’inserimento lavorativo per persone con disabilità

Il 25 novembre presso il Politecnico di Milano, grazie al convegno “Disability Management: Buone pratiche e prospettive future in Italia”, a cui hanno partecipato circa 340 persone provenienti dai mondi dell’impresa, della ricerca e delle istituzioni, si è discusso delle possibilità di inclusione e inserimento lavorativo per le persone con disabilità. Dopo avervi illustrato i contenuti del convegno in un precedente articolo, approfondiamo ora il tema con Veronica Mattana, psicologa del lavoro e delle organizzazioni, tra le promotrici del convegno (a questo link è possibile visualizzare gli interventi dei relatori e i poster presentati durante l’evento).


Dottoressa Mattana come siete arrivati a promuovere e organizzare questo convegno?

Questo convegno nasce da un’idea mia e della dottoressa Battistelli. Dopo aver collaborato per una ricerca abbiamo deciso di promuovere un evento nazionale sul tema del “Disability Management realizzato grazie alla disponibilità del Politecnico. Veniamo da due ambiti diversi, io dall’università, la dottoressa Battistelli dall’impresa, due mondi che in Italia non interagiscono come invece avviene negli Stati Uniti ove essendovi più connessioni tra università e impresa, la ricerca funziona molto meglio e le buone prassi trovano una migliore attuazione… Non a caso l’Italia sul disability management è indietro di trent’anni!
L’idea di fondo era mettere insieme e far comunicare questi due mondi per offrire contenuti e riflessioni di qualità.


Può innanzitutto descriverci in cosa consiste il disability management, come si è sviluppato e quanto è diffuso in Italia? E quali sono gli strumenti di lavoro di un disability manager?

In Italia la figura del disability manager è stata menzionata per la prima volta nel famoso “Libro bianco su accessibilità e mobilità urbana” del 2009 che ne suggeriva l’introduzione nei Comuni con più di 50.000 abitanti. In un Comune con più di 50.000 abitanti, come nelle aziende private, è necessario un piano di disability management per il personale; è quindi opportuno destinare un componente della direzione del personale alla stesura dei piani di disability management in base alle specifiche esigenze dell’organizzazione.

Il disability manager può essere un dipendente dell’organizzazione (NdA impresa o ente pubblico) ma può anche essere un consulente esterno; l’importante è che l’organizzazione abbia le risorse professionali per garantire l’inserimento dei lavoratori con disabilità. È impensabile inserire un disability manager o un diversity manager in tutte le aziende con quindici dipendenti ma questo però non significa che una piccola azienda non possa assumere persone con disabilità.


Che competenze deve avere questa figura? Che strumenti usa nel suo lavoro quotidiano?

Le competenze possono variare in base all’ambito di lavoro. In alcuni Paesi si sta sviluppando la figura del disability manager in ambito assicurativo per tutte le questioni inerenti all’infortunistica stradale, alla prevenzione… A seconda del settore dove lavora acquisisce competenze specifiche.

Più che di disability manager, sarebbe opportuno parlare di disability management, che sta a indicare che non debba essere una sola persona a occuparsi dei vari aspetti del tema. Le aziende non assumono disability manager, più spesso individuano una persona al loro interno che può assumere questo ruolo e la formano.

Un elemento indispensabile alle aziende che intendono porre attenzione alle esigenze dei lavoratori con disabilità è sapere quanti e quali sono le persone con disabilità al proprio interno. Nel momento in cui l’azienda decide di acquisire tali dati, s’individuerà un responsabile o si creerà un team, che si occuperà oltre che della raccolta, delle analisi e dell’elaborazione del piano di disability management.


Il disability management si basa su saperi connessi a diversi ambiti disciplinari unendo competenze di tipo manageriale ed economico con competenze di tipo psico-sociale; come si inserisce nell’insieme delle professioni sociali e cosa lo differenzia dalle professioni più “storiche” e diffuse (educatore sociale, psicologo, assistente sociale…)?

Quello che si fa nel disability management è molto diverso da quello che va a fare un educatore o un assistente sociale. Gli assistenti sociali operano nell’ambito dei servizi sociali, che a volte prevedono anche l’inserimento lavorativo affrontandolo però da un punto di vista clinico. Le pratiche aziendali rientrano nella gestione delle risorse umane, nelle pratiche organizzative, nel change management e nella promozione della cittadinanza organizzativa.

Facendo un intervento organizzativo, come il disability management, ci sono sempre un livello individuale, un livello di gruppo, un livello organizzativo e andando oltre anche un livello esterno. Queste figure professionali (NdA educatori sociali, assistenti sociali, psicologi) lavorano sempre sul livello individuale ma sebbene nel disability management una parte del lavoro sia sul singolo, questa è solo una parte dell’intervento, poi c’è tutta la parte sul management aziendale, che può essere fatta, meglio se in team, da vari professionisti come psicologi, economisti o giuristi.


Prima parlando della concreta attività del disability manager ha fatto riferimento a interventi multilivello (individuale, di gruppo, organizzazione), a concetti come la cittadinanza organizzativa e ad altre pratiche. Può approfondirli?

La maggior parte delle aziende non conosce il profilo dei propri dipendenti con disabilità. Se il primo step è mappare queste problematiche all’interno dell’azienda, il secondo è un intervento capillare che porti al pieno inserimento di queste persone, sia con gli strumenti (informatici, ergonomici, ecc.), sia con l’adozione di una cultura inclusiva a tutti i livelli dell’organizzazione.

Un’analisi organizzativa di questo tipo richiede l’impiego di strumenti, come questionari, interviste, focus group, con i quali si rilevano e si analizzano in profondità valori, atteggiamenti, clima, regole scritte e non scritte, prassi non formalizzate ma riconosciute e adottate da tutti e alcuni comportamenti informali come l’altruismo e la fiducia.

Il quadro così ottenuto serve per capire dove e come intervenire, per esempio il divario tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto, quali iniziative saranno più utili (formazione, tutoraggio, mentoring, ecc.) e a i target a cui devono essere rivolte. In conclusione ogni azienda è un caso a sé e ha le sue esigenze.


Tornando al convegno, diversi interventi hanno evidenziato come per un’impresa la piena integrazione delle persone con disabilità non sia solo un dovere etico o giuridico bensì un’opportunità. Secondo lei quali passaggi organizzativi e gestionali deve compiere un’impresa per potersi giocare realmente questa opportunità?

Intanto esiste un problema culturale in quanto l’inclusione passa sicuramente per un discorso di cultura organizzativa. Non basta che inseriamo le nuove tecnologie nell’impresa dando a un lavoratore con disabilità un computer con l’ultimo sistema operativo dotato di tutte le tecnologie assistive possibili se poi non lo inseriamo in un gruppo di lavoro; continuerà comunque a fare un lavoro da “categoria protetta”, non inserito nei processi produttivi. Giustamente una volta che il lavoratore è dotato di tutte le tecnologie necessarie deve essere produttivo come gli altri e la produttività va valutata. Senza dimenticare che si può e si dovrebbe fare anche un ragionamento a medio e lungo termine, in cui per esempio nel calcolo del ROI – “Return on Investment” si includa il ritorno in termini di immagine, oltre che di benessere dei lavoratori.


Cosa deve fare un’azienda per valorizzare un lavoratore con disabilità?

Uno dei passaggi fondamentali quando si entra in azienda è il recruiting. Una azienda deve quindi avvalersi di recruiters, con competenze adeguate per valutare le capacità e le potenzialità dei lavoratori con disabilità altrimenti sta ottemperando a un mero obbligo burocratico-normativo. Poi se l’azienda ha bisogno di personale in un determinato settore quando assume la persona con disabilità la seleziona con competenze in quello specifico settore.

All’inizio le attività critiche sono essenzialmente due: un buon recruiting e una buona socializzazione. I dettagli dipendono, in parte, dalle specifiche disabilità mentre il processo d’inserimento organizzativo si può fare in tantissimi modi. Adesso stanno attivando le convenzioni tra i Centri per l’impiego e le aziende previsti dalla Legge 68/1999 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” e ci sono studi che dicono che stanno dando buoni risultati: la persona con disabilità viene inserita per un periodo di prova in un’azienda con la prospettiva di essere assunta in caso di esito positivo. Il problema è sempre il matching, l’incontro. Se il matching va bene perché non dovrebbero assumerla?


Secondo lei è possibile implementare pratiche di inclusione di persone disabili nelle PMI?

Sicuramente sì. Ci sono però pochi studi su questo tema; io stessa qualche anno fa ho coordinato un progetto in Sardegna, dove abbiamo intervistato una ventina di piccolissime imprese al limite dei 15 dipendenti. Ci sono piccoli imprenditori che non hanno nessun problema ad assumere persone con disabilità. Bisogna mettere queste persone nelle condizioni di produrre e promuovere un cambiamento culturale che favorisca il passaggio da un’ottica del limite a un’ottica delle potenzialità. Poi le piccole aziende possono anche organizzarsi in rete, come già stanno facendo su alcuni territori.


Un altro aspetto interessante è la concettualizzazione della disabilità come una parte della diversity: in molte imprese le politiche per l’inclusione delle persone con disabilità rientrano nel più vasto insieme delle politiche per la diversity. Come valuta questo passaggio?

Sicuramente ci sono problematiche comuni come la categorizzazione e gli stereotipi. Diciamo che queste categorizzazioni, che sono dei processi psicologici, riguardano tutte le minoranze e hanno un substrato comune. Poi i piani di disability management vanno distinti da altri piani di diversity management come quelli rivolti alle persone LGBT. Dato il substrato comune, le aziende hanno giustamente nel loro settore HR persone specializzate nella diversity in cui rientrano tutte le categorie a rischio di emarginazione.
Quando, poi si va ad analizzare la letteratura internazionale, si vede come gli studi di disability management costituiscano un filone di ricerca a parte. In più esiste un filone americano che è il “Return to Work” che studia solo le persone che si sono ammalate o hanno avuto incidenti (per cause lavorative o extra lavorative), che è ancora più circoscritto. Non necessariamente gli studi di disability management fanno riferimento al diversity management e viceversa. Gli studi sulla diversity considerano tra le diversità anche la disabilità, ma spesso hanno un focus diverso (donne, minoranze etniche, LGBT, ecc.).


Al convegno è emerso un contesto in forte trasformazione: da un lato il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha ridotto la standardizzazione dei processi produttivi, ad esempio introducendo lo smart working, e favorito quindi l’inclusione delle persone con disabilità, dall’altro ha incrementato però la frammentazione e il precariato nel mondo del lavoro aumentando le situazioni di rischio e i disturbi psichici tra i lavoratori. Come valuta questo quadro?

Siamo in un periodo di grandi cambiamenti, caratterizzato dall’avvento delle ICT (NdA Information Communication Technology) e dalla globalizzazione, elementi che rendono il quadro complesso e il futuro incerto. Grandi aziende stanno presentando piani di ristrutturazione che comportano la riduzione del personale. Detto questo, sicuramente il lavoro in ufficio per cui si entra e si timbra il cartellino alle otto del mattino e si esce alle quattro e mezza del pomeriggio è destinato a sparire, il lavoro del futuro è lo smart working; c’è anche una proposta di legge ora ferma alla Camera dei Deputati. Lo smart working non è il vecchio telelavoro, di cui erano destinatarie le donne in maternità o le persone con disabilità ma una nuova forma di lavoro che riguarda la maggior parte dei lavoratori e sta aprendo a nuove opportunità. Vi è poi tutto il discorso sull’automatizzazione: le nuove tecnologie continueranno a togliere posti di lavoro, ma ne produrranno di nuovi sempre più specializzati per tutti, persone con disabilità o meno.


Al convegno è però emerso come vi possano essere anche criticità…

Nella mia esperienza, quando sono stata chiamata a fare analisi e interventi all’interno di organizzazioni, per esempio in ambito di stress lavoro-correlato, le persone che stanno in ufficio dove magari sono in tre, in aree molto piccole, sono anche persone sottoposte a stress. Poi cambia molto da organizzazione a organizzazione, però stare otto ore al giorno cinque giorni a settimana a contatto con le stesse persone soprattutto quando emergono problemi non è facile. Ci sono persone che hanno lavorato 40 anni a contatto con gli stessi colleghi e sono andate in pensione felicissime, però non è sempre così. Io ho sempre lavorato in smart working e non mi è mai dispiaciuto. Bisogna prestare attenzione alle esigenze del singolo, non tutti dovranno lavorare in smart working per forza. È chiaro però che lo smart working ha dei benefici per l’azienda, perchè avrà sempre più postazioni in open space e in numero ridotto.


Alla luce di queste considerazioni ritiene che attualmente in Italia il diritto al lavoro per le persone con disabilità sia concretamente esigibile?

In linea di massima si, però in Italia vi sono problematiche relative al placement. Ci sono aree geografiche dove i Centri per l’impiego funzionano meglio e altre aree dove funzionano meno bene ma il problema è ancora più a monte: il numero dei dipendenti dei Centri per l’impiego in Italia è molto ma molto più basso rispetto ad altri Paesi come il Regno Unito, dove i centri per l’impiego sono molto più efficienti e in grado di fornire lavoro agli iscritti in tempi rapidi.

Oltre a questo, ci sono notevoli differenze anche tra i servizi di placement post lauream, forniti dalle diverse università. Come abbiamo visto in occasione del convegno ci sono università, come il Politecnico di Milano, che funzionano molto bene anche per le persone con disabilità. La situazione non è omogenea sul territorio nazionale, per cui in alcune regioni e/o zone tali servizi non funzionano affatto. Questo è un grosso problema, su cui bisogna lavorare.

Si deve fare un ragionamento a 360 gradi. Altrimenti torniamo al discorso degli istituti. Gli istituti accompagnavano il ragazzo fino a quando diventava maggiorenne e veniva collocato in un lavoro protetto. Vogliamo tornare a questo? Allora ciò che abbiamo fatto in questi quarant’anni non è servito a niente. Secondo me no però dobbiamo lavorare di più su tutta una serie di questioni, che in Italia rimangono invece ancora aperte.


Ha appena parlato del Politecnico di Milano: andando oltre questo esempio positivo, può descriverci la rilevanza e la complessità del passaggio dalla formazione al mondo del lavoro per un giovane adulto con disabilità?

La transizione studio–lavoro è un passaggio critico per tutti. Ovviamente per chi ha una disabilità e si trova all’età di 24-25 anni a doversi inserire nel mondo del lavoro comporta più paure, più perplessità. Le università, tranne quelle più grosse come il Politecnico di Milano, non riescono sempre a garantire l’inserimento in azienda subito dopo la laurea; dipende anche dalle caratteristiche del territorio e dal contesto produttivo.

Come abbiamo visto al convegno, le soluzioni possono essere tante. Uno dei poster, presentato da Jobmetoo, descriveva la sua attività come Agenzia per il Lavoro, riconosciuta da due anni dal Ministero, specializzata nel recruiting di persone appartenenti alle categorie protette e fondata da Daniele Regolo, che è una persona con disabilità. Jobmetoo garantisce il matching tra domanda e offerta, tramite una piattaforma online, alla quale possono registrarsi sia persone in cerca di occupazione sia le aziende in cerca di nuovo personale.

Sarebbe opportuno che servizi come questo fossero presenti in modo più capillare. Ho visto che adesso molte agenzie per il lavoro, tra cui Randstad, si stanno muovendo in questa direzione, attivando dei progetti di collaborazione con le università e con le aziende. Il progetto Bridge presentato da Randstad ne è un ottimo esempio.

La normativa italiana in materia di diritto al lavoro per le persone con disabilità è stata oggetto di cambiamenti importanti: nel 2009 la ratifica della Convenzione ONU, nel 2014 il Jobs Act, nel 2016 è stata presentato alla Conferenza di Firenze sulle Politiche per la Disabilità il “Secondo Programma Biennale di Azione per la Promozione dei Diritti e l’Integrazione delle Persone con Disabilità” che prevede il potenziamento dei Centri per l’impiego, il sostegno all’imprenditorialità e al lavoro autonomo, l’attivazione di partenariati profit/non-profit per il collocamento mirato, il raccordo tra scuola e mondo del lavoro, l’introduzione in azienda di figure come il disability manager e strumenti come un osservatorio aziendale in cui sono rappresentati su base paritetica sia l’azienda che i lavoratori. Come valuta l’impianto normativo attuale e le proposte del programma biennale?

L’Italia non è indietro sul piano normativo. Nel 2013 era stata ripresa dalla Corte di Giustizia Europea perché la normativa era carente su alcuni aspetti (per esempio obbligare i datori di lavoro a creare le condizioni perché le persone con disabilità potessero effettivamente svolgere il lavoro) e demandava alle amministrazioni locali alcuni provvedimenti normativi. Va anche sottolineato che la Legge 68/1999 non è stata pienamente applicata.

Sono ancora molte le aziende che assumono solo per adempiere alla normativa. Il punto cruciale è fare un passo avanti, sviluppando una cultura inclusiva, per cui al di là della legge esiste il buon senso e l’interesse a inserire in azienda persone con disabilità che siano produttive.

Si parla di istituzionalizzare la figura del disability manager ma alla fine di cosa si deve occupare? La letteratura internazionale a questo proposito è abbastanza scarsa e non esiste un profilo unico di disability manager. Si fa riferimento, invece, ai piani di disability management, che includono più professionisti e che a seconda dei singoli casi possono essere sia interni che esterni all’organizzazione.

L’idea del programma biennale dell’osservatorio aziendale è buona ma concretamente in azienda disability manager può esserlo chiunque, da un giorno all’altro un nostro collega può ammalarsi e indirettamente la situazione coinvolge anche i colleghi. Il disability manager può essere inserito nell’area risorse umane per facilitare i processi ma non può farsi carico dell’inserimento e/o del reinserimento di persone con disabilità acquisita che ritornano al lavoro, nella vita di tutti i giorni.


Per concludere vorrei chiederle quali scenari le sembra si possano prospettare per il futuro?

Gli studi prevedono il lavoro del futuro come sempre più professionalizzato, per cui le aziende assumeranno tendenzialmente persone con un livello di studio più elevato. Considerando che, oggi a volte le aziende fanno fatica a reperire persone con una specifica laurea in un dato settore, compito più generale delle politiche pubbliche dovrebbe essere indirizzare i giovani verso studi più mirati per quello che sarà il lavoro tra qualche anno; l’alta professionalizzazione potrebbe essere un ostacolo. La tecnologia può includere ma anche creare digital divide.

Questo messaggio in Italia non è ancora passato: sembra che si debba trovare lavoro per tutti, soprattutto per le persone con disabilità, ma non si pensa mai che le persone con disabilità debbano essere mandate a scuola, soprattutto debbano essere messe nelle condizioni di raggiungere i livelli d’istruzione più elevati.

Personalmente sono abbastanza contraria ai corsi di formazione destinati esclusivamente alle persone con disabilità. Ci sono situazioni di una gravità tale per cui intervenire diventa molto problematico, però ci sono anche situazioni in cui basterebbe per esempio fare i corsi in aule accessibili anche per chi si muove in carrozzina, piuttosto che progettare dei corsi ad hoc per chi ha una disabilità motoria.

Quando un genitore si rivolge a un’associazione, un medico o a un insegnante per un consiglio per il figlio con disabilità, l’indicazione più appropriata dovrebbe essere quella di farlo continuare a studiare. Non si capisce perché, invece, per le persone con disabilità dovrebbe bastare il corso di formazione appositamente progettato per loro. L’innalzamento del livello d’istruzione per le persone con disabilità è un problema della società, di cui dovremmo avere più coscienza e affrontarlo in modo mirato.

http://www.secondowelfare.it/

 

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