Attualmente diagnosticare l’Alzheimer è un processo complesso, costoso e spesso fastidioso. Servono esami non sempre facilmente accessibili, come la puntura lombare, per l’analisi del liquido cerebrospinale, e la tomografia a emissioni di positroni (la PET). Le cose però potrebbero cambiare grazie ai recenti progressi nella ricerca di biomarcatori ematici, cioè molecole la cui alterazione nel sangue è correlata alla malattia e può essere rilevata anche prima dell’insorgenza dei sintomi, che di solito compaiono dopo i 65-70 anni.
Se, quando e a chi somministrare i test per i biomarcatori è un tema che solleva però questioni complesse e richiede attente valutazioni. Oltre ai potenziali benefici, serve infatti considerare le implicazioni etiche e psicologiche di far conoscere alle persone qual è il loro rischio di sviluppare una malattia per cui al momento non esistono cure. È una delle ragioni per cui attualmente i test non sono disponibili per la popolazione generale ma solo come strumenti di supporto alla diagnosi tradizionale.
Uno di questi è stato da poco autorizzato negli Stati Uniti dalla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici. Prodotto dall’azienda giapponese Fujirebio, il test permette di misurare i livelli nel sangue di due proteine associate a un accumulo di placche nel cervello, uno dei tratti distintivi dell’Alzheimer. Le placche possono formarsi anni prima di qualsiasi sintomo di deterioramento cognitivo, ma il test – che non basta da solo né a diagnosticare né ad escludere la malattia – è stato autorizzato soltanto per l’utilizzo clinico su pazienti sintomatici e di almeno 55 anni.
La notizia è stata accolta dagli specialisti con cautela ma anche ottimismo, perché il test rende il processo della diagnosi meno invasivo e potenzialmente estendibile su larga scala. Questo potrebbe avere ripercussioni importanti sullo sviluppo e sulla valutazione di nuove terapie. «Una diagnosi biologica più accessibile permetterà di reclutare con maggiore efficienza i pazienti nei trial clinici, in fase più precoce e con maggiore accuratezza rispetto alla diagnosi clinica tradizionale», spiega la neurologa Federica Agosta, direttrice dell’Unità di Neuroimaging delle malattie neurodegenerative dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e professoressa associata di neurologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele.
Anche se il test non è utilizzabile sulla popolazione generale, è probabile che la sua autorizzazione renderà medici, pazienti e caregiver più consapevoli di questa innovazione nella diagnosi precoce. E altri test già sviluppati ma non ancora commercializzati potrebbero diventare in futuro ampiamente disponibili. Può quindi avere senso cominciare a interrogarsi sulle difficoltà psicologiche e sulle diverse predisposizioni delle persone di fronte alla possibilità di conoscere in anticipo se svilupperanno l’Alzheimer, oltre che sull’opportunità di farlo.
Un’ospite della clinica specialistica “Cuidem la Memòria” regge in mano l’immagine di una pecora durante un’attività per pazienti affetti da Alzheimer, a Barcellona, in Spagna, il 2 agosto 2012 (David Ramos/Getty Images)
Uno studio pubblicato a maggio sulla rivista scientifica JAMA ha coinvolto negli Stati Uniti 274 persone con 65 anni o più, senza sintomi di Alzheimer né di altre demenze. Per una ricerca sull’invecchiamento avevano messo a disposizione i risultati di vari esami e il 40 per cento di loro si è rifiutato di conoscere la stima del proprio rischio di sviluppare l’Alzheimer, nonostante tutti avessero inizialmente espresso interesse riguardo alla possibilità di saperlo.
L’accuratezza della previsione aveva comunque dei limiti (82-84 per cento) e una delle spiegazioni fornite dalle persone per motivare il loro rifiuto di conoscere quella previsione è che le avrebbe comunque lasciate nel dubbio, cosa difficile da gestire psicologicamente.
La spiegazione più comune comunque è stata che conoscere la previsione sarebbe stato un peso difficile da sostenere. Molti partecipanti hanno attribuito le ragioni della loro riluttanza all’influenza di precedenti esperienze personali negative e traumatiche nel prestare assistenza a persone malate di Alzheimer. Tra chi aveva o aveva avuto almeno un caso in famiglia i rifiuti sono stati infatti maggiori rispetto a quelli di chi non ne aveva.
Dai risultati è emersa anche una maggiore propensione al rifiuto tra i partecipanti neri. La loro predisposizione negativa, secondo le autrici e gli autori dello studio, potrebbe essere spiegata da precedenti esperienze di stigma e discriminazione. Essere cresciuti in un contesto di ingiustizia sociale, insomma, potrebbe rendere agli occhi di quelle persone più gravosa e angosciante la prospettiva di avere l’Alzheimer.
In considerazione dei recenti progressi nella ricerca sui biomarcatori ematici, è già in fase di revisione una serie di raccomandazioni europee per l’uso dei biomarcatori nella diagnosi delle malattie neurodegenerative pubblicata nel 2024 da esperti di diverse università e istituti di ricerca in Europa, tra cui Agosta.
Già quelle linee guida, spiega Agosta, avevano posto al centro della riflessione «la necessità di decidere quando, per chi e quali biomarcatori utilizzare, in funzione del contesto clinico, dello stadio della malattia e dello scopo della valutazione». La disponibilità di biomarcatori ematici «apre scenari nuovi e potenzialmente rivoluzionari», ma rende ancora più stringente la necessità di definire percorsi diagnostici chiari, adottare standard analitici e clinici su scala internazionale, e avere «un quadro normativo ed etico condiviso, che tuteli i pazienti e ne rispetti il diritto all’informazione e alla scelta».
Secondo Agosta è inoltre fondamentale la formazione degli operatori. Specialmente nel caso di biomarcatori che indicano una malattia in fase preclinica o una vulnerabilità per una malattia, è necessario, dice, «spiegare bene il significato clinico del test, i suoi limiti, e le conseguenze concrete. Cosa comporta, sapere? Cosa si può fare in più o in meno, se il test è positivo o negativo?».
Soltanto in questo modo il paziente può decidere consapevolmente se proseguire con la valutazione o no, e soltanto in questo modo la diagnosi ha senso. «Ogni persona ha la libertà di scegliere quanto vuole conoscere e come desidera affrontare il proprio futuro, soprattutto in assenza di sintomi e in assenza di trattamenti preventivi definitivi», dice Agosta.
Poiché allo stato attuale i test sono disponibili soltanto in ambito clinico e in presenza di sintomi, quello che bisogna chiedersi non è tanto quale sia la disponibilità delle persone a farli e a conoscerne il risultato, ma quali pazienti dovrebbero farli, e con quali altre informazioni. Non ci sono molti dubbi infatti sul fatto che il risultato del test da solo, su persone asintomatiche, avrebbe gravi implicazioni psicologiche e un’utilità molto limitata.
La possibilità di somministrare i test deve essere ponderata caso per caso, tenendo in conto sia le implicazioni psicologiche sia l’utilità limitata del test per le persone asintomatiche. Non è la stessa cosa, per esempio, che fare un esame per diagnosticare il cancro al seno, ha scritto sul sito The Conversation Claudia Cooper, psicologa della Queen Mary University a Londra. In quel caso, a chi ha un rischio molto alto di ammalarsi possono essere proposte misure preventive come farmaci, interventi chirurgici o screening avanzati. Ma nel caso dell’Alzheimer non esiste ancora niente di paragonabile a queste misure, per ridurre nelle persone asintomatiche il loro rischio di svilupparlo.
Questo non significa che concentrarsi sull’individuazione dei rischi futuri di sviluppare una demenza, prima di disporre di terapie efficaci, sia insensato. Lo sviluppo dei trattamenti, conclude Cooper, «dipende dalle nuove scoperte scientifiche che ci stanno aiutando a diagnosticare precocemente l’Alzheimer», perché «trovare una cura per una malattia richiede una comprensione approfondita di come si sviluppa».