Dentro alla Cappella Sistina non ci saranno interpreti, e i cardinali elettori arrivano da 71 paesi diversi: come si fa?
Dopo l’extra omnes, la formula latina che indica il “fuori tutti” e segna l’inizio del conclave per eleggere il nuovo papa, ad assistere i cardinali nella Cappella Sistina resterà il personale addetto ai pranzi e alle pulizie, ma nessun traduttore. Matteo Bruni, responsabile della sala stampa vaticana, ha chiarito che i 133 votanti non avranno interpreti: del resto l’accesso alla Cappella Sistina durante le procedure di voto è limitato a pochissime persone.
In caso di dubbi su un termine o per una frase contorta «si affideranno alla carità cristiana dei confratelli che potranno aiutare», dice Bruni. Certo, ci sarà comunque «una lingua ufficiale, cioè l’italiano», che verrà usata in varie procedure di voto: ma è difficile pensare che tutto il procedimento della scelta del papa, conversazioni comprese, possa svolgersi in italiano, cioè la lingua madre di appena 19 dei 133 cardinali elettori.
Papa Francesco ha infatti nominato molti più cardinali dei suoi predecessori, e da zone del mondo piuttosto eterogenee: oggi a Roma ci sono rappresentanti di 71 paesi, che per eleggere il nuovo papa dovranno prima di tutto capirsi. Per facilitare la comunicazione durante le congregazioni generali, le riunioni preliminari in cui nei giorni scorsi i cardinali hanno discusso lo stato della Chiesa, a tutti quelli che hanno voluto tenere un discorso è stato concesso di scegliere la lingua che preferivano, ed è stata assicurata la presenza di una traduzione simultanea. Ma nel conclave la situazione sarà molto diversa.
Il conclave più globale e affollato della storia sembra essere quello in cui il fattore linguistico inciderà di più, per almeno due motivi. Tra i 133 votanti ci sono persone che in molti casi non si sono mai incontrate e hanno bisogno di conoscersi meglio, ed è una prima differenza rispetto al passato. La seconda è che il latino, la lingua della tradizione, è formalmente conosciuta da tutti i cardinali perché usata in molti dei riti cattolici, ma è meno praticata nell’uso corrente rispetto al passato. Di fatto, il latino non è più la lingua franca e di riserva per chi arriva da paesi lontani e che a volte sono meno allineati rispetto a un tempo ai percorsi “educativi” e alle tradizioni della Chiesa di Roma.
(AP Photo/Andreea Alexandru)
Saranno in latino, ovviamente, le formule rituali del conclave. La scheda su cui ciascun cardinale scriverà il nome del prescelto riporta le parole Eligo in Summum Pontificem… (Scelgo come Sommo Pontefice…) e in latino sarà la formula che ognuno pronuncerà prima di riporre nell’urna la scheda. Quando un candidato avrà ottenuto i due terzi dei voti, gli verrà rivolta la domanda: Acceptasne electionem factam in Summum Pontificem? («Accetti l’elezione a Sommo Pontefice?»). E quando sarà il momento di annunciare l’elezione, a darne notizia sarà la frase: Nuntio vobis gaudium magnum: habemus papam («Vi annuncio una grande gioia: abbiamo un papa»). Seguirà la comunicazione del nome del nuovo pontefice e del nome scelto per il pontificato, sempre in latino.
Al di là delle formule del rito, è difficile immaginare che il latino possa oggi servire come lingua di conversazione tra chi conduce una trattativa. Anche l’italiano – masticato da tutti i cardinali che per via del loro ruolo frequentano spesso il Vaticano e quindi l’Italia – però potrebbe non bastare.
Nei giorni scorsi il quotidiano spagnolo El País ha avanzato dei dubbi sulla padronanza dell’italiano di uno dei cardinali considerati papabili, l’arcivescovo di Marsiglia Jean-Marc Aveline. Nella chiesa romana di cui è titolare (ogni cardinale ne ha una, che gli è assegnata dal papa) ha di recente pronunciato un’omelia in italiano, forse per fugare ogni dubbio. Ma si trattava di un testo scritto, e per chi considera che un papa – anche perché vescovo di Roma – debba comunque parlare un italiano fluido, quell’omelia letta non sembra sia stato un test sufficiente.
Se il latino è la lingua della liturgia e delle formule rituali e l’italiano è quella del lavoro quotidiano e delle conversazioni ordinarie in Vaticano, nel governo della Chiesa esiste un’altra lingua semi-ufficiale: è il francese, infatti, la lingua ufficiale della diplomazia vaticana. È una tradizione che risale al XVII secolo, epoca del regno di Luigi XIV, quando il francese si affermò come lingua della diplomazia in tutta Europa. In Vaticano le lettere credenziali degli ambasciatori e molti atti ufficiali nei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati sono ancora redatti in francese.