“Non sono d’accordo ad abolire il reddito di cittadinanza“, ma solo “per disabili o inabili al lavoro“. Per tutti gli altri, invece, evidentemente sì. E ancora: “Io sono d’accordo con quella norma, approvata poco prima della fine del governo Draghi, che dice che è meglio permettere alle aziende di fare la proposta direttamente ai percettori del reddito, e se non la accettano sono le aziende stesse a segnalare che la persona non deve più avere il reddito”.
Dal Meeting di Comunione e Liberazione, con un paio di frasi attentamente misurate, Luigi Di Maio rinnega la misura-simbolo della sua carriera politica. Lo fa accodandosi – lui che ne è stato il creatore – all’assalto al Rdc andato in scena dal palco di Rimini, e dando a un eventuale futuro governo di centrodestra il suo placet alla revoca del sussidio per quei milioni di percettori che non sono né disabili né inabili al lavoro, ma hanno la “colpa” di avere stipendi da fame. Con buona pace dell’”abolizione della povertà” annunciata in pompa magna da ministro del Lavoro nel primo governo Conte, e delle sue innumerevoli altre dichiarazioni sul tema (una a caso a novembre scorso: “Non buttiamo il bambino con l’acqua sporca, abolirlo è un rischio per tutto il Paese”).
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