Tutela invalidi sul posto di lavoro

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Quando si parla di disabili sul posto di lavoro si fa riferimento a due situazioni: quelli che lo sono già all’atto dell’assunzione e, perciò, hanno diritto al collocamento obbligatorio in quanto rientranti nelle categorie protette, e quelli invece che lo diventano in un momento successivo e perciò potrebbero perdere il posto per non essere più in grado di svolgere le precedenti mansioni. Per questi ultimi, la legge prevede una garanzia importante, ai tecnici nota come «obbligo di repechage» ma che, in modo più approssimativo, potremmo chiamare tutela invalidi sul posto di lavoro. Di cosa si tratta e quando scatta il diritto a vedersi assegnare un incarico differente come alternativa ad un sicuro licenziamento?

Legge e giurisprudenza si sono affannate, in tutti questi anni, a chiarire il ruolo del disabile – o portatore di handicap – all’interno del posto di lavoro per ragioni sopravvenute, stabilendo i confini che, pur nel legittimo esercizio del diritto di tutelare l’azienda, il datore di lavoro trova nel momento in cui decide di recidere il rapporto di lavoro. Oltre a ciò, ci sono tutte le tutele prestate dalla legge 104 e di cui parleremo al termine dell’articolo.

In particolare, una recente pronuncia, a firma della Cassazione [1], fa ulteriore chiarezza sull’argomento spiegando come funziona la tutela invalidi sul posto di lavoro. Commenteremo le parole della Suprema Corte per avere un quadro chiaro e completo dei diritti e doveri dei dipendenti non più abili. Ma procediamo con ordine. 

Limiti al licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta

Una direttiva dell’Unione Europea [2], divenuta legge nel nostro Paese [3], stabilisce il divieto per l’azienda di procedere al licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap”, se prima il datore di lavoro non esegue una verifica della possibilità di «adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro»: essi servono per garantire il mantenimento del posto al lavoratore divenuto disabile. Tuttavia, il datore non è tenuto a sostenere una spesa eccessiva. Come dice la Cassazione, tali adattamenti non devono comportare un onere finanziario sproporzionato rispetto alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa. Esse, inoltre, vanno assunte comunque nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido.

Così, prima di risolvere il rapporto di lavoro con il portatore di handicap, il datore di lavoro deve verificare se:

  • le precedenti mansioni possono essere ugualmente svolte, nonostante la disabilità, mediante l’assunzione di adattamenti (si pensi a sedie particolari o a monitor del computer dotati di filtri);
  • nel caso in cui sia impossibile operare tali adattamenti e, quindi, continuare a svolgere il precedente incarico, se vi sono in azienda differenti mansioni a cui adibire il dipendente. 

Tali ulteriori mansioni, però, devono essere:

    • effettivamente sussistenti: il datore non è chiamato a “creare” una nuova mansione o una posizione lavorativa “ad hoc” pur di mantenere il posto al disabile, ma soltanto individuare diverse soluzioni tra quelle già esistenti;
    • non ricoperte da altri dipendenti: il datore di lavoro non può essere costretto a licenziare o a trasferire altri colleghi, già impiegati in dette mansioni, solo per lasciare spazio al disabile;
  • compatibili con la formazione, lo stato di salute e le capacità del dipendente divenuto disabile.

Se non ricorrono tali condizioni – sintetizzate dalla giurisprudenza con la locuzione «obbligo di repechage» – è legittimo il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta. Al lavoratore spetteranno chiaramente il Tfr e l’indennità di disoccupazione.

Tutela invalidi sul lavoro: cosa dice la legge?

L’art. 5 della direttiva comunitaria stabilisce che: «Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti accomodamenti ragionevoli». Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perchè possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. 

Il decreto legislativo di recepimento della predetta direttiva recita così: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della l. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori».

Per comprendere che cosa sia un «accomodamento ragionevole» vengono in soccorso la direttiva 2000/78/Ce e la Convenzione Onu del 2006, guidata dall’interpretazione della Corte di giustizia: gli accomodamenti o soluzioni ragionevoli sono da intendersi come tutte le misure, necessarie e appropriate in base ai singoli casi, destinate a organizzare «il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento», nel rispetto del limite rappresentato dal carattere non sproporzionato né eccessivo dei corrispondenti oneri a carico del datore.

Tutele invalidi Legge 104

La Legge 104 del 1992 tutela i portatori di handicap (lo stato di handicap è accertato da una commissione medica dell’Asl) e i loro familiari (in particolare, il familiare che si prende cura, in via prevalente, del disabile). La normativa prevede:

  • il diritto a scegliere la sede di lavoro all’atto dell’assunzione;
  • il diritto a non essere trasferiti di sede, dopo l’assunzione, senza il proprio consenso;
    • il diritto a un congedo straordinario retribuito di massimo due anni;
    • il diritto al rifiuto del lavoro notturno, domenicale o festivo;
    • il diritto (per i familiari del disabile) a tre giorni al mese di permesso retribuito per la cura del disabile.

    Maggiori chiarimenti nella nostra guida sulla Legge 104.

 

note

[1] Cass. ord. n. 34132/19 del 19.12.2019.

[2] Art. 5 Direttiva 2000/78/CE.

[3] Art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003.


SENTEZZA

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 19 novembre – 19 dicembre 2019, n. 34132

Presidente Di Cerbo – Relatore Raimondi

Fatti di causa

1. Con ricorso ai sensi della L. n. 92 del 2012 F.L. adiva il Tribunale di Nola impugnando il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica intimatogli in data 4.2.2016 dalla società Vigilanza San Paolino s.r.l., alle cui dipendenze aveva lavorato in qualità di guardia giurata dal mese di agosto 2004. Il Tribunale accoglieva il ricorso a conclusione della fase sommaria. L’opposizione della società veniva rigettata con sentenza pubblicata il 20.12.2017, con la quale il Tribunale confermava l’illegittimità del recesso datoriale per violazione dell’obbligo di repechage.

2. Avverso la detta sentenza, la società datrice di lavoro proponeva reclamo dinanzi alla Corte di appello di Napoli. Il lavoratore si costituiva per resistere all’impugnazione.

3. Con sentenza pubblicata il 4.5.2018 la Corte di appello di Napoli rigettava il reclamo, confermava la sentenza impugnata e condannava la società reclamante al pagamento delle spese del grado.

4. La Corte non accoglieva la tesi della società reclamante, secondo la quale essa aveva dato piena prova dell’impossibilità di repechge del F. nella propria organizzazione aziendale attraverso la produzione dell’organigramma aziendale dal quale risultava che tutte le postazioni di lavoro presso i vari clienti dell’Istituto di vigilanza erano stabilmente occupate, ossia che non vi erano postazioni vacanti in cui ricollocare il dipendente. Secondo la Corte di appello, considerata la perfetta omogeneità e fungibilità delle mansioni svolte dai vari dipendenti della società, vi sarebbe stata la possibilità, da parte della società, di adibire il ricorrente a “postazioni compatibili con il suo stato di salute senza alcuna alterazione dell’assetto aziendale stabilito dalla stessa”. Osservando che il lavoratore non era stato considerato assolutamente inidoneo alle mansioni di pertinenza di guardia giurata, ma presentava solo delle limitazioni, e poiché la sua posizione di lavoro non era stata soppressa, “nulla impediva all’azienda di reperire all’interno della sua organizzazione delle postazioni di lavoro compatibili con il nuovo stato di salute, magari spostando qualche dipendente da una posizione lavorativa all’altra, attesa la piena fungibilità ed omogeneità delle mansioni, ovvero facendo turnare il reclamato con altri dipendenti impegnati solo in turni diurni e in postazioni più congrue con il suo stato di salute.” Non si sarebbe trattato, secondo la Corte territoriale, di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda, ossia di creare una posizione lavorativa ad hoc per il F. , ma di individuare tra le posizioni esistenti quella compatibile con le sue condizioni di lavoro facendolo lavorare solo nel turno diurno ed in postazioni non richiedenti prolungate posizioni in piedi e non presso le banche dove più alto è il rischio di rapine.

5. Avverso la sentenza della Corte territoriale la società Vigilanza San Paolino s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a un unico complesso motivo illustrato da memoria. Leonardo F. resiste con controricorso. L’Ufficio del Procuratore Generale ha depositato memoria.

Ragioni della decisione

1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto, come in appresso precisato.

2. Con l’unico motivo la società ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, nonché dell’art. 1463 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Vigilanza San Paolino lamenta l’erroneità in diritto della sentenza impugnata, che ha considerato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per insussistenza del giustificato motivo oggettivo invocato dall’impresa. In particolare, si sostiene che, nel quadro dell’obbligo di repechage a carico del datore di lavoro, il principio di diritto applicabile è quello secondo cui spetta al datore di lavoro di provare l’inesistenza di posizioni lavorative libere e compatibili con lo stato di salute residuale del lavoratore. Non spetta invece al datore di lavoro dare la prova dell’inesistenza di “prestazioni” lavorative nell’ambito dell’impresa compatibili con le residue capacità lavorative, come è stato affermato dalla Corte territoriale.

3. Secondo la ricorrente la sentenza impugnata porrebbe erroneamente a carico del datore di lavoro un onere probatorio relativamente a un fatto per il quale, secondo la legge, non è previsto il sindacato del giudice, cioè la modifica dell’organizzazione aziendale per mano giudiziaria. Si sostiene nel ricorso che il principio applicabile in materia di repechage è quello per cui il diritto del lavoratore licenziando ad essere collocato in altra posizione aziendale sussiste per le mansioni equipollenti e, pure, con il suo consenso, mansioni inferiori, ma solo ove tali mansioni risultino scoperte nell’organigramma. La ricorrente insiste sul principio secondo cui non incombe sul datore di lavoro l’obbligo di mantenere il lavoratore in servizio attribuendogli mansioni compatibili con le residue – ovviamente inferiori – capacità lavorative, quando ciò comporti una modificazione dell’assetto organizzativo dell’impresa. La ricorrente pone poi in rilievo che, come osservato anche dalla sentenza impugnata, il lavoratore non ha contestato l’organigramma aziendale riportato in ricorso, documento dal quale non si ravvisava alcuna posizione “vacante” su cui poterlo ricollocare.

4. La fattispecie in esame si colloca, ratione temporis, nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, come integrato dal D.L. n. 76 del 2013 (convertito con modificazioni in L. n. 99 del 2013), disposizione tesa a recepire l’art. 5 della direttiva n. 78/2000/CE DEL 27.11.2000 in materia di “accomodamenti ragionevoli” per garantire il principio del rispetto della parità del trattamento dei disabili sul luogo di lavoro.

5. L’art. 3, comma 3 bis, citato è stato preso in considerazione dalla giurisprudenza di questa Corte, in particolare con le sentenze n. 6798 e n. 27243 del 2018.

6. Con la prima la Corte ha affermato che, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, obbligo che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

7. Con la seconda, si è statuito che, sempre in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap,sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido – ai fini della legittimità del recesso, in applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

8. Quest’ultima sentenza ha ricostruito come segue il quadro normativo. L’art. 5 della Direttiva stabilisce che: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti accomodamenti ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di aver una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore delle persone con disabilità”.

9. L’art. 3, comma 3-bis recita: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, del 13 dicembre 2006, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”. La citata Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 (art. 2) considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.

10. La suddetta disposizione è stata introdotta a seguito della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-312/11, Commissione contro Repubblica Italiana) che ha condannato lo Stato italiano per inadempimento all’obbligo di recepire, in maniera integrale, la direttiva citata. In particolare, i giudici di Lussemburgo hanno respinto la tesi prospettata dalla difesa del Governo italiano secondo cui l’applicazione dell’art. 5 della Direttiva non poteva basarsi su un’unica modalità, fondata sugli obblighi imposti ai datori di lavoro, ma doveva avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema pubblico – privato atto ad affiancare il datore e le persone con disabilità (un sistema di promozione dell’inclusione che sarebbe già in parte previsto dalla L. n. 68 del 1999, dalla L. n. 104 del 1992, dal T.U. n. 81 del 2008 e dalla normativa su cooperative e imprese sociali). Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea per trasporre correttamente l’art. 5 della Direttiva, letto alla luce dei considerando 20 e 21, non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le persone con disabilità, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano ad essi di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. In particolare, il considerando 21 del Preambolo della Direttiva citata prevede che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”. La Corte di Giustizia, in conformità dell’art. 2, comma 4, della Convenzione dell’ONU, ha definito gli “accomodamenti ragionevoli” come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (CGUE, 4 luglio 2013, Commissione c. Italia, punto 58).

In tale decisione la Corte, dopo aver esaminato la legislazione italiana vigente in materia di protezione dei disabili (in specie, la L. n. 104 del 1992, la L. n. 381 del 1991, la L. n. 68 del 1999, il D.Lgs. n. 81 del 2008), ha sottolineato che, dal testo dell’art. 5 della Direttiva 78/2000, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21, risulta che gli Stati membri devono stabilire nella loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, riducendo l’orario di lavoro, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, con il solo limite di imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato.

11. Successivamente, la Corte di Giustizia Europea è intervenuta con riguardo alla normativa danese (sentenza 11 aprile 2013, cause C-335/11 e C-337/11) in ordine alla compatibilità dell’ambiente lavorativo con le funzionalità del disabile e ha rilevato che l’art. 5 della Direttiva 78/2000 deve essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento di cui a tale articolo, competendo al giudice nazionale valutare se la riduzione dell’orario di lavoro rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.

12. L’Ufficio del Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso. Sia nella memoria sia nel suo intervento orale, il Pubblico Ministero ha osservato che, pur essendo mancata ogni indagine da parte della sentenza impugnata in ordine alla disciplina di cui al citato art. 3, comma 3 bis, la soluzione della Corte distrettuale doveva ritenersi in linea con tale disciplina, quale essa deve intendersi una volta convenientemente interpretata.

13. A questo proposito il Pubblico Ministero ha sottoposto a vaglio critico la giurisprudenza di questa Corte in tema di “accomodamenti ragionevoli”, in particolare le citate sentenze n. 6798 del 2018 e n. 27243 del 2018.

14. Ad avviso del Pubblico Ministero questa giurisprudenza, letta nel senso che gli obblighi del datore di lavoro sarebbero comunque da ricostruire nell’ambito di una sostanziale intangibilità dell’organizzazione del lavoro impressa dall’imprenditore, che la necessità di rispettare il mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa andrebbe intesa nel senso di escludere misure implicanti oneri di spesa e che resterebbe rigidamente fermo il diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita, affermazioni queste che non terrebbero conto del diverso presupposto normativo che oggi arricchisce la tutela delle persone disabili di nuovi, più penetranti mezzi di tutela, sposerebbe un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice della novella, che viceversa negherebbe l’assolutezza del divieto, affidando al giudice la verifica di volta in volta dell’adempimento dell’obbligo (ovvero l’inesistenza o impraticabilità di idonei “accomodamenti”) o invece la sua violazione (come si ricava dalle decisioni n. 6798 del 2018, citata, e n. 13649 del 2019).

15. Non ritiene il Collegio che la precedente giurisprudenza di questa Corte sugli “accomodamenti ragionevoli” debba essere letta nel senso assolutamente restrittivo inteso dal Pubblico Ministero.

16. In ogni caso il motivo di ricorso, nel lamentare che la soluzione assunta dalla sentenza impugnata imporrebbe la modifica dell’organizzazione aziendale per mano giudiziaria, contrariamente ai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte (p.es., Cass. n. 8419 del 2018), mette a nudo la carenza della decisione della Corte distrettuale, che non ha svolto alcuna indagine sui limiti nei quali il citato art. 3, comma 3 bis in relazione alle misure di accomodamento divisate dalla stessa decisione, impone di incidere sulla vita dell’azienda, nel raggiungimento del delicato punto di equilibrio – richiesto dalla corretta applicazione della norma come interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte – tra il diritto del disabile a non essere discriminato, quello dell’imprenditore ad organizzare l’azienda secondo le proprie insindacabili scelte e quello degli altri lavoratori. Ciò che ridonda sulle norme invocate in ricorso.

17. Tale indagine va svolta alla stregua dei parametri individuati dalla citata norma, che fa rinvio all’art. 2, pure citato, della Convenzione di New York del 2006, che, come si è detto, considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico proporzionato ed eccessivo (corsivo aggiunto), ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art. 2).

18. Ciò che è mancata nell’analisi della sentenza impugnata è la valutazione della proporzionalità e della non eccessività delle misure di adattamento in essa indicate sia rispetto all’organizzazione aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori. A tale valutazione dovrà provvedere il giudice di rinvio.

19. La sentenza impugnata va pertanto cassata” con rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà ai principi già indicati e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese.

 

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