Questo è un breve scritto, assolutamente non un pamphlet, tutt’altro, direi piuttosto un testo finemente e piacevolmente pedagogico, rivolto sopratutto ai non addetti ai lavori, quindi a quasi tutti noi comuni lettori. Un libro professionale ma non destinato ai professionisti, almeno non solo a loro: ha intensa valenza pedagogica ed esplicativa, semplice ed incisiva, perché educa nel modo più efficace, vale a dire attraverso l’esempio. Riporta singoli episodi, descrive fatti e persone, e nel mentre ci insegna, introducendoci alla logica dell’applicazione della giustizia, come prevista nel nostro ordinamento. Si presenta come un saggio, è ben scritto e scorre con fluidità, è di gradevole lettura come un romanzo, anzi come una vera e propria antologia di racconti ad hoc.
Non solo, ma è a firma di chi certi fatti li vive davvero pressoché quotidianamente, un addetto ai lavori competente ai più alti livelli, l’autore è un giudice che sa perfettamente di cosa sta parlando, e lo riporta fedelmente. Aggiungendovi una buona dose di tatto e sensibilità personale, con una gran cultura non solo in ambito giuridico: cita con competenza Edgar Allan Poe e la sua “La morte rossa”, Edward Bunker e il suo “Come una bestia feroce”, “Il caso Maurizius” di Jacob Wassermann, tanto per riportare qualche titolo.
Il tutto, per cogliere appieno anche gli aspetti più reconditi di quanto scrive, rendendoli su carta con la massima chiarezza, esaurienti ed esaustivi nella loro esposizione.
In sintesi, quello del giudice Leoni è il racconto di un iter professionale che si snoda in tempi e luoghi differenti, ogni narrazione è diversa dall’altra, ma tutte sono unite da un unico filo conduttore, che chiamerei di intensa empatia umana applicata alla giurisprudenza.
Questo è il modo più congeniale di esplicare la funzione di giudice.
Anche quello più difficile, talora ostico e arcigno.
Ma il solo modo umanamente possibile di svolgere tale professione, senza far torto alla società, agli utenti di ogni ordine e grado e su qualsiasi lato della barricata si trovino situati, ed a sé stessi.
Più precisamente, questo lavoro del giudice Andrea Leoni, Presidente della Corte d’Assise di Bologna, è esattamente quello che il sottotitolo indica, una raccolta delle esperienze vissute nel corso della sua delicata quanta essenziale professione, basilare in qualsiasi contesto civile, e le conseguenti riflessioni che quelle suscitano. Interessanti e rivelatrici di fatti, ambienti, situazioni di vita che la maggior parte delle persone ignora, almeno nei particolari; una realtà misconosciuta, spesso incoscientemente negata, perché ci causa disagio, e però incidente, e con gran peso, nel quotidiano. Succede nel corso dell’umana esistenza che eventi e persone deraglino dal tragitto regolare prestabilito, condotto sui binari delle norme che detta un consorzio civile; per riequilibrare il rispetto di ruoli e regole, si chiama in causa la giustizia.
La giustizia, come rappresentata nell’immaginario collettivo, è o dovrebbe essere una Dea cieca ed astratta, solo per ciò infallibile, obiettiva ed imparziale. Reca in mano una bilancia, nei due piatti si pesano i pro e contro di un fatto finito, e colui che è chiamato a giudicare, il fuoco della bilancia, il fulcro attorno al quale la leva oscilla, e decide da che parte pende in misura maggiore, è però tutto tranne che cieco o incorporeo. Tutt’altro, un giudice, prima di essere tale, è una persona in carne e ossa; e il buon giudice è sempre una persona sensibile, che sente, osserva, ascolta, studia e pondera. Obiettiva e imparziale, che si sforza di essere ragionevolmente certo, al di là di ogni lecito dubbio, ma sa di non essere infallibile.
Non può rinunciare alla propria condizione di uomo, e non mostrare empatia umana.
In sintesi, la giustizia è astratta, ma gli uomini che la amministrano no, neanche potrebbero, sarebbe come andare contro natura. Ecco perché giudicare il prossimo, non è compito semplice, a maggior ragione se facendolo si priva, o si debba pensare di privare una qualsiasi persona del bene massimo che possa mai detenere, la libertà personale.
Specie davanti ai delitti più abietti, ma anche nei confronti dei reati più lievi, l’uomo medio, o meglio il suo perbenismo innato, che quasi sempre è solo ipocrisia, fa in fretta a dettare giudizi sommari, a invocare pene severissime, giudizi immediati e cruenti, soluzioni drastiche, ma niente di tutto questo ha a che fare con la giustizia, semmai con l’emotività, da cui il giudice sempre deve prescindere, suo malgrado, e a fatica.
Quello di Leoni è un lungo viaggio nella notte degli uomini, talora schiarita qua e là da qualche tenue luce, ma sempre nel buio, e spesso nelle tenebre. Sentir parlare di certe cose è un conto, constatarle di persona è un altro, partendo per esempio da un ospedale psichiatrico nel profondo sud della penisola, un ambiente intriso d’incuria, sporcizia, dolore, solo per questo in grado di trasmettere allucinazione e delirio nei visitatori, dopo aver intriso a fondo fino al midollo l’anima dei disgraziati ricoverati. Transitando per l’impossibilità di sistemare un giovane tossicodipendente in una qualsiasi struttura alternativa al carcere, dove invece più spesso sono costretti a soggiornare a forza per mancanza di serie opzioni differenti, cosicché all’interessato non resta che perseverare diabolicamente nel proprio vizio, perfezionandosi nella microdelinquenza obbligata, perché unica fonte atta ad alimentare economicamente la propria dipendenza, fino alla prossima volta o alla inevitabile infausta conclusione. Andrea Leoni questo compie nel suo scritto, ci illustra una serie di casi emblematici e tipi umani che ha incontrato nel corso del suo servizio. Ancora, per esempio, ci racconta d’immigrati clandestini, perciò per definizione irregolari, illegali, passabili obbligatoriamente di sanzioni di giustizia, paradossalmente indispensabili presso tantissime famiglie. Perché si incaricano in prima persona, per paghe da fame, a sbrigare tutto quanto più nessuno dei “lavoratori regolari indigeni” è disponibile a svolgere, si occupano dei compiti più faticosi, badano alla casa e specialmente ai suoi abitanti più fragili e vulnerabili, gli anziani, sostituendosi a una rete assistenziale assente a certe modeste retribuzioni. Svolgono per assurdo un ruolo di grande utilità sociale, in alternativa potrebbero solo andare a ingrossare le file della manodopera delinquenziale o del racket della prostituzione, a danno di tutti, eppure un giudice altro non può che applicare la legge. Che queste persone li etichetta, proprio con una piccola etica, fuori legge. La giustizia per forza di cose evolve di pari passo con la società, si aggiorna, incontra nuovi modi di commettere reati, per esempio lo stalking, e il giudice è chiamato a decidere sul disagio esistenziale che queste condotte ossessive, parossistiche, spesso demenziali, causano alle vittime.
Più spesso adottando misure cautelari, prima per restituire la pace perduta ai malcapitati caduti in queste sgradite attenzioni o presunte tali, nella speranza che la misura si tramuti anche per il colpevole, in qualche modo, come un’opportunità per riconsiderare la propria condotta fuori luogo, farsene una ragione, porre rimedio alla propria solitudine esistenziale che lo indirizza alla sua nefasta condotta. Con tutti i rischi che questo comporta, e la cronaca riporta.
In sintesi, infine, dalla lettura si trae una sola convinzione: fare il giudice non è una cosa semplice. Sempre però va esercitata al meglio. Quelli che la esercitano, stanno bene attenti a esercitarla, con scienza e coscienza, avendo l’accortezza di distinguere tra giustizia e legge, che non sono la stessa cosa. La legge è scritta dagli uomini, è generale ed astratta, imperativa e prevede sanzioni, detta regole, mentre la giustizia invece non è la sola pedissequa applicazione delle regole, è una virtù morale: gli uomini sono uguali davanti alla legge, ma non davanti alla giustizia. Proprio perché sono uomini, ciascuno a sé stante, unico: e il giudice deve tener conto, per quanto gli riesce, di tale irripetibilità. La giustizia, rappresentata come una Dea, è invece più un atto di fede: si crede in qualcosa che appare sufficientemente chiara per credere, sufficientemente oscura per dubitare.
Quel che conta, è che il giudice, come un sacerdote, perseveri nel credere: nell’uomo, non nella Dea. E trovi modo di ritemprarsi, come il nostro, nel modo più spesso efficace: in famiglia.
FONTE DEL LIBRO: “Quale giustizia? Esperienze e riflessioni di un giudice”
di Michele Leoni
da Bruno Izzo