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Il Vaticano non vuole i Templari intorno al Vaticano, solo che li ha messi lì il Vaticano

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Due volontari di “Templari Oggi” che controllano le vie che portano a piazza San Pietro (Il Post)

Fanno i volontari per il Giubileo, ma i vescovi dicono di starne alla larga

di Francesco Gaeta
Redazione Il Post

Negli ultimi giorni chi arrivava a Roma in via della Conciliazione, la strada che conduce in piazza San Pietro, poteva essere controllato non solo dalle forze di polizia ma anche da alcuni volontari, vestiti di bianco con una croce rossa come insegna. Sono i membri dell’associazione Templari Oggi, anche nota come Templari Cattolici d’Italia. Si considerano eredi dei Templari, un ordine monastico-militare fondato nel 1119 da Hugues de Payns con lo scopo di proteggere i pellegrini in Terra Santa. Sono tra le tante organizzazioni che collaborano al Giubileo, l’anno santo per la Chiesa cattolica, e che vengono selezionate dal Dicastero per l’evangelizzazione del Vaticano.

Templari Oggi, però, secondo la Conferenza dei vescovi italiani non dovrebbe essere presente intorno a piazza San Pietro. In una lettera del 6 maggio inviata alle diocesi italiane, il segretario della Cei Giuseppe Baturi ha ricordato che l’organizzazione è stata «soppressa nel 2022 con provvedimento confermato nel 2023 dal Dicastero per i laici», l’ufficio del Vaticano che si occupa delle organizzazioni cattoliche, e anche dal Tribunale della Segnatura Apostolica. Malgrado ciò, ha scritto Baturi, «anche in questo Anno giubilare, alcune persone, indossando la divisa dei Templari Cattolici d’Italia o dei Templari Oggi, prestano un servizio volontario in vari eventi del Giubileo a Roma o in altre località, contribuendo a promuovere tale realtà negli ignari fedeli».

Il Vaticano insomma non vuole che i Templari stiano intorno a piazza San Pietro (e quindi al Vaticano), ma è stato un altro ufficio del Vaticano (il Dicastero per l’evangelizzazione) a metterli lì. Sembra ci sia una contraddizione interna notevole.

Marco Lucente, che al Dicastero per l’evangelizzazione è responsabile dei volontari del Giubileo, dice al Post che non c’è alcun conflitto tra uffici della Chiesa, ma «si tratta semplicemente di un problema di tempistiche», visto che «la selezione dei volontari di Templari Oggi è avvenuta prima della lettera della Cei». Lucenti ha aggiunto che «non si possono escludere nuovi provvedimenti». Servirà però più di qualche giorno. Dopo il periodo di sede vacante nel quale gli incarichi in Vaticano sono stati sospesi, il nuovo papa Leone XIV avrà bisogno di un po’ di tempo per provvedere alla conferma o al ricambio delle cariche, comprese quelle del Dicastero per l’evangelizzazione, che potranno eventualmente decidere in modo diverso.

L’Ordine dei Templari non esiste più da molto tempo: dopo avere accumulato molto potere controllando i luoghi santi ai cattolici in Terra Santa, fu ufficialmente soppresso nel 1312 da papa Clemente V. Oggi però sono molte le organizzazioni che pur dicendosi tutte fedeli alla Chiesa di Roma se ne contendono l’eredità. Tra le altre ci sono l’Ordo Supremus Militaris Templi Hierosolymitani, il Sovrano Militare Ordine del Tempio di Gerusalemme (OSMTJ), la Militia Templi. I Templari hanno da sempre alimentato un immaginario molto ricco di storie più o meno leggendarie e ispirate a saperi esoterici, che li hannno avvicinati a organizzazioni più recenti come la massoneria.

Nel caso dei Templari oggila Chiesa cattolica aveva preso già da tempo alcuni provvedimenti per limitarne l’attività. È avvenuto nel 2021 a Verona, dove l’associazione è stata invitata dal vescovo Giuseppe Zenti a «una seria revisione del proprio statuto e ad una analisi del modo di vivere l’associazionismo, le attività, le relazioni tra i suoi membri e le scelte di governo da parte del Consiglio direttivo». Poi, nel febbraio 2022, l’organizzazione è stata sospesa dalle attività sul territorio.

Il provvedimento del vescovo di Verona è stato confermato da Roma nel 2023 dal Dicastero per i laici guidato dal cardinale Kevin Joseph Farrell, che dopo la morte di papa Francesco è anche stato il camerlengo, cioè colui che ha la responsabilità del Vaticano durante il periodo di transizione da un pontefice a un altro. Il 6 maggio, un giorno prima dell’inizio del conclave, è poi partita la lettera della Cei inviata su richiesta dello stesso Farrell.

In Vaticano sono arrivate fin qui circa 13mila candidature per lavorare come volontari durante il Giubileo. «Abbiamo persone che sono venute da tutti i continenti», ha dichiarato qualche tempo fa Marco Lucente, «persone che arrivano da Singapore, Taiwan, Sud America, Nord America».

Ogni giorno sono circa 150 i volontari che gravitano intorno a piazza San Pietro per il Giubileo: sorvegliano gli accessi e danno indicazione e assistenza ai fedeli. Possono essere singoli o componenti di un’associazione. Per chi arriva da fuori Roma è assicurato un posto in una struttura di accoglienza che comprende 100 posti letto, la Domus Spei, in via Monte Farina 64. Il requisito per essere ammessi è una lettera di presentazione da parte del parroco di riferimento.

20 giovani interpreti per l’assistenza sanitaria ai turisti stranieri

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Si rinnova il servizio dell’Ulss 4 in vista dell’estate: lavoreranno nelle postazioni di emergenza delle località del litorale, oltre che a San Donà e Portogruaro

Sono 20 gli interpreti dell’Ulss 4 che dal 1° maggio svolgono attività di mediazione linguistica nei punti di primo intervento sanitario del litorale: a Bibione, Caorle, Jesolo, Cavallino Treporti, nella postazione di emergenza ad Eraclea mare e nei pronto soccorso di San Donà di Piave e Portogruaro.

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Sono giovani laureati o studenti in interpretariato o lingue, in diversi all’università degli studi di Trieste con la quale Ulss 4 ha avviato da qualche anno una convenzione per attivare un corso di lingua tedesca in terminologia medica; altri interpreti si sono laureati nelle università di Padova, Pescara, Trento, Pisa Milano, Bologna. Provengono dunque da varie province del Veneto, dal Friuli Venezia Giulia, Trentino, da Torino, Milano, Rimini, dalle province di Trapani, Brindisi e Salerno, con età compresa tra 22 e 29 anni.

Il loro compito principale è garantire la comprensione tra turisti di lingua tedesca o inglese con il personale medico e sanitario, mentre per turisti di altre 123 lingue il personale dell’Ulss 4 ha a disposizione un servizio di interpretariato telefonico. Gli interpreti operano inoltre a supporto delle attività di accoglienza e accompagnamento lungo tutto il percorso seguito dagli assistiti, turisti e non, dal primo ingresso e fino al momento della dimissione.

Formazione

Nei giorni scorsi il team degli interpreti ha partecipato ad una giornata formativa affrontando i temi della sicurezza sul lavoro, protocolli operativi, gestione del paziente, gestione amministrativa. Nell’occasione sono intervenuti il direttore generale Mauro Filippi, il direttore amministrativo Massimo Visentin, il direttore del dipartimento emergenza-urgenza Elena Momesso, personale dell’unità medicina turistica. A tutti, l’azienda sanitaria ha consegnato le magliette di ordinanza “Staff medicina turistica” offerte da Noventa Designer Outlet.

Per questi ragazzi si tratterà, oltre che di un percorso professionale, anche di un’esperienza di vita, che proseguirà fino a settembre in un contesto turistico ma a stretto contatto con il personale sanitario: un impegno comune per assicurare l’assistenza sanitaria in situazioni di emergenza urgenza.

Redazione Venezia Today

 

 

 

Parole e disabilità, video promuove il linguaggio inclusivo

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Al via la terza edizione del premio Paolo Osiride Ferreo, scadenza elaborati il 15 settembre

“Ma basta! Ma non avete sentito cosa ho detto in riunione? E che siete sordi? E che siete una tribù di handicappati?”.

È un linguaggio ‘colorito’ quello utilizzato dalla direttrice di una testata, disabile su una sedia a rotelle, per commentare il lavoro della redazione impegnata sul temi del mondo della disabilità. La giornalista (impersonata da Silvia de Maria) parla così in un video realizzato da Shottime Video Productions e lanciato dalla Cpd – Consulta per le Persone in Difficoltà. Il promo, dal titolo ‘Non esistono parole sbagliate’ è stato presentato in occasione del lancio della terza edizione del Premio Giornalistico Paolo Osiride Ferrero ideata e promossa da Cpd di Torino Odv Ets. Il video è un invito incisivo all’uso corretto delle parole in favore di un linguaggio più ampio e inclusivo, rivolto a tutti e in particolare agli operatori del settore dell’informazione e della comunicazione locali e nazionali. Il premio Paolo Osiride Ferrero, presidente storico della Cpd dal 1995 alla quale si è dedicato tutta la vita fino alla sua scomparsa, è stato lanciato grazie al sostegno e alla partnership strategica con Fondazione Crt nell’ambito del progetto Agenda della Disabilità ideato dalla Fondazione e da Cpd.

La scadenza di presentazione degli elaborati è il 15 settembre.

La terza edizione del Premio Giornalistico “Paolo Osiride Ferrero” è ideata e promossa da CPD – Consulta per le Persone in Difficoltà di Torino ODV ETS grazie al sostegno e alla partnership strategica con Fondazione CRT nell’ambito del progetto Agenda della Disabilità, con il patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, della Federazione Nazionale Stampa Italiana, della Città di Torino, della Regione Piemonte e con la richiesta di patrocinio al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, al Ministero della Cultura e al Ministero per le Disabilità, oltre che in collaborazione con il Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” dell’Università di Torino, l’Associazione Angelo Burzi, OPES aps e la media partnership con l’Agenzia ANSA e il sostegno di ASTM Group, Avio Aero e Fondazione Venesio Ente Filantropico.
Il Regolamento, il modulo per la domanda di partecipazione e tutte le informazioni necessarie per sapere come partecipare al concorso, sono pubblicate sul sito istituzionale della CPD e sono consultabili al seguente link: https://www.cpdconsulta.it/premio-giornalistico-paolo-osiride-ferrero-2/

È possibile concorrere per tre categorie uniche:
· Carta stampata (con riconoscimento economico di 2.000€) per il miglior articolo, servizio giornalistico, inchiesta di approfondimento o reportage che sia stato pubblicato da una testata giornalistica su carta, locale o nazionale;
· Radio e TV (con riconoscimento economico di 2.000 €) per il miglior servizio radio o televisivo che sia stato mandato in onda su un canale radio o televisivo, locale o nazionale;
· Web e social (con riconoscimento economico di 2.000 €) per il miglior contenuto web e social, intendendo come tale il contenuto testuale, visivo o audio che viene reso disponibile online e che l’utente incontra nell’ambito dell’utilizzo e dell’esperienza online sui siti web, sui blog, sui social network e su altre piattaforme. Può includere testo, immagini, suoni e audio, video online e altri elementi inseriti all’interno di pagine web.

Redazione Ansa

 

Fumata nera, fumata bianca

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La fumata nera al secondo giorno del conclave in cui fu poi eletto papa Francesco, 13 marzo 2013 (AP Photo/Dmitry Lovetsky)

È il simbolo con cui si capisce se il conclave ha eletto il papa oppure no, ma in qualche caso ha creato una certa confusione

In questi giorni l’attenzione di centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo è rivolta al comignolo montato sul tetto della Cappella Sistina in occasione del conclave, la riunione dei cardinali incaricata di eleggere il nuovo papa. È da lì infatti che escono le tradizionali fumate: quella nera indica che il conclave non ha ancora eletto un papa, come accaduto mercoledì al primo scrutinio, mentre quella bianca segnala che la decisione c’è stata e che quindi, di lì a poco, il nuovo pontefice verrà presentato al mondo. È una consuetudine ormai consolidata, ma che in qualche caso ha creato una certa confusione.

La prima fumata di cui si hanno notizie certe risale al 1878, quando diventò papa Leone XIII. Secondo lo storico Frederic J. Baumgartner, autore di un libro sul conclave, si era parlato di una fumata già dal conclave del 1823, che si tenne nella cappella Paolina, sempre nel Vaticano, e si concluse con l’elezione di Leone XII: non era però chiaro che fosse usato per indicare l’elezione del papa. Fino al 1903, con l’elezione di Pio X, in ogni caso il fumo indicava solo la mancata elezione, e non aveva nemmeno un colore particolare.

È dall’agosto del 1914, con l’elezione di Benedetto XV, che furono introdotte le fumate nere o bianche come le intendiamo oggi. Il fumo è quello prodotto dalle schede che vengono bruciate dopo ciascuno scrutinio, assieme a eventuali altri biglietti con gli appunti presi dai cardinali che partecipano al conclave, che quest’anno sono 133. Con le regole attuali è previsto un solo scrutinio il primo giorno, e quattro per i giorni successivi, due al mattino e due al pomeriggio. Se il papa non viene scelto, le schede vengono bruciate una volta al mattino e una al pomeriggio, e questo vuol dire che ci saranno due fumate nere, attorno alle 12 e alle 19 rispettivamente, ma il primo giorno di questo conclave ha dimostrato che gli orari possono cambiare molto, visto che la prima fumata nera è arrivata verso le 21.

Se invece il voto ha esito positivo c’è la fumata bianca direttamente dopo lo scrutinio, e quindi anche attorno alle 10:30 o alle 17:30, seguita dal suono delle campane.

La stufa tradizionale usata per il conclave è sempre la stessa dal 1939, quando fu impiegata per la prima volta per l’elezione di papa Pio XII. È un cilindro in ghisa alto circa un metro, sulla calotta sono scritte le date dei conclavi in cui è stata adoperata ed è affiancata da una seconda stufa più moderna, in cui vengono aggiunte delle sostanze che generano il colore nero o bianco. Fino a qualche decennio fa infatti per creare il fumo bianco alle schede da bruciare veniva aggiunta della paglia umida. Visto che il colore del fumo dipendeva dalla combustione di materiali naturali, a volte le fumate risultavano spesso grigie o poco chiare, con il risultato che non si capiva se il nuovo papa c’era oppure no.

La stufa e il generatore elettronico che si usano nel conclave durante l’allestimento della Cappella Sistina, lo scorso 3 maggio (ANSA/VATICAN MEDIA)

La mattina del 26 ottobre 1958, al secondo giorno del conclave, dal comignolo cominciò a uscire del fumo bianco che via via diventò più scuro. Accadde lo stesso anche nel pomeriggio, quando a una lunga fumata bianca dopo pochi minuti ne seguì una nera: i fedeli erano rimasti in attesa del nuovo pontefice per oltre mezz’ora e persino la Radio Vaticana aveva annunciato l’elezione del papa con una certa sicurezza. Però il papa non era ancora stato eletto.

Nacque così una teoria del complotto secondo cui, durante quello scrutinio, sarebbe stato eletto con il nome di Gregorio XVII il cardinale conservatore Giuseppe Siri, che però non sarebbe stato proclamato a causa di pressioni esterne. Siri ha sempre negato questa versione. Due giorni dopo fu infine eletto Angelo Giuseppe Roncalli, noto come Giovanni XXIII.

Un altro caso celebre è quello di Albino Luciani, che fu eletto al quarto scrutinio il 26 agosto del 1978 e scelse il nome di Giovanni Paolo I. Luciani è l’ultimo papa italiano ed ebbe uno dei pontificati più brevi della storia, visto che morì dopo soli 33 giorni: si ricorda comunque come il papa eletto con la fumata nera. Inizialmente la fumata aveva un colore grigio chiaro e poi divenne nera: tra la folla e tra i cronisti ci furono momenti di grande incertezza, fino a quando non si aprirono le vetrate della loggia centrale della Basilica Vaticana e si capì che un papa era effettivamente stato eletto.

Per ovviare a questi problemi Giovanni Paolo II, il suo successore, introdusse l’uso di una seconda stufa più sofisticata. Nella vecchia stufa si continuano a bruciare le schede con il voto dei cardinali, mentre nell’altra vengono piazzate delle cartucce bianche o nere che servono per dare il colore al fumo, di modo da aumentarne la visibilità e la nitidezza: le canne fumarie della stufa e del generatore elettronico confluiscono in un unico condotto, che poi sfocia nel comignolo. Le due stufe sono state usate per la prima volta nel conclave del 2005, quello in cui fu eletto Benedetto XVI.

Con il nuovo generatore si usano additivi chimici, che si distinguono molto meglio rispetto alla paglia o alla pece che si usavano una volta. Per il fumo nero si usano perclorato di potassio, antracene e zolfo, mentre per quello bianco clorato di potassio, lattosio e colofonia. Fino al 2005 inoltre poteva esserci anche una fumata gialla, che però è stata abolita: non indicava l’elezione del papa o meno, ma semplicemente una prova del funzionamento del comignolo.

Redazione Il Post

La questione degli aerei militari indiani abbattuti dal Pakistan

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I detriti di un aereo a Pulwama, nel Kashmir indiano, il 7 maggio 2025 (AP Photo/Dar Yasin)

L’India non ha confermato, ma stanno uscendo varie notizie in merito: è un dettaglio importante per diverse ragioni

Mercoledì il Pakistan ha detto di aver abbattuto cinque aerei militari indiani e un drone durante l’attacco compiuto dall’India martedì sera contro diversi siti in Pakistan e nel Kashmir pakistano. Ha specificato di aver abbattuto due aerei Rafale; un aereo da combattimento MIG-29, usato in molti paesi dell’Unione Sovietica a partire dagli anni Ottanta; e un Su-30, anche questo costruito nell’Unione Sovietica dagli anni Novanta.

L’informazione è stata diffusa solo dal Pakistan, e l’India non l’ha confermata. Intanto però alcuni funzionari hanno detto in forma anonima a vari giornali internazionali che alcuni aerei indiani sono stati abbattuti, anche se non è chiaro quanti. Per esempio, un ufficiale indiano rimasto anonimo ha detto all’agenzia di stampa francese AFP che tre aerei indiani da combattimento sono precipitati, senza specificare la causa. Un funzionario dell’intelligence francese ha detto più chiaramente a CNN che un jet Rafale è stato abbattuto dal Pakistan.

Non è chiaro esattamente come gli aerei sarebbero stati abbattuti: circolano informazioni confuse che è impossibile verificare in modo indipendente. Una fonte della sicurezza pakistana ha detto a CNN che durante l’attacco missilistico compiuto dall’India ci sono stati anche dei combattimenti aerei durati circa un’ora: jet militari indiani e pakistani si sono sparati a vicenda, senza lasciare il proprio spazio aereo, ed è in questi scontri che il Pakistan avrebbe abbattuto i cinque aerei indiani.

Un edificio danneggiato dai missili indiani a Muzaffarabad, nel Kashmir pakistano (AP Photo/M.D. Mughal)

La questione potrebbe sembrare di poco conto, ma è diventata rilevante perché il governo del Pakistan ha usato retoricamente l’abbattimento degli aerei indiani per sostenere che il Pakistan abbia già risposto militarmente all’attacco dell’India, come ritorsione. Il fatto che il Pakistan presenti l’abbattimento di aerei indiani come ritorsione potrebbe suggerire che non abbia intenzione di rispondere ulteriormente, e rischiare l’inizio di una guerra più ampia con l’India (ovviamente queste interpretazioni vanno prese con le pinze).

Inizialmente la notizia dei jet abbattuti era stata riferita anche dai media indiani, ma poi alcuni avevano cancellato o modificato i loro articoli. Vari giornali indiani avevano anche provato a smentire o perlomeno mettere in dubbio che gli aerei fossero stati abbattuti. In generale sulla questione è circolata parecchia disinformazione: i fact-checking di media occidentali, tra cui il sito tedesco DW e l’agenzia di stampa francese AFP, hanno verificato come vari video diffusi come presunta prova degli abbattimenti non fossero stati filmati in questi giorni ma risalissero ad anni fa.

Elicotteri dell’esercito indiano volano su Srinagar, nel Kashmir indiano, il 5 maggio (AP Photo/Mukhtar Khan)

L’abbattimento degli aerei indiani evidenzia anche la debolezza e l’inefficacia dell’aviazione militare indiana, un problema noto da tempo in India e a cui negli ultimi anni il governo aveva cercato di rimediare.

L’aviazione militare indiana è piuttosto debole. Ha a disposizione circa 30 squadre da combattimento, ma quasi la metà consiste in vecchi aerei costruiti in Russia, o da aerei francesi che la Francia non usa più da vent’anni. Da anni il governo sta provando a migliorare la situazione con ingenti investimenti: per esempio nel 2016 comprò dalla Francia 36 jet da combattimento del modello Rafale per quasi 8 miliardi di euro, e lo scorso aprile ne ha acquistati altri 26 che dovrebbero essere consegnati entro il 2030. L’aviazione pachistana invece è più preparata ed esperta, anche grazie alle molte operazioni antiterrorismo che ha condotto negli ultimi vent’anni.

Resti di un aereo nel Kashmir indiano, il 7 maggio 2025 (AP Photo/Dar Yasin)

L’attacco dell’India era stato a sua volta una ritorsione per l’attentato terroristico compiuto il 22 aprile a Pahalgam, una nota zona turistica del Kashmir indiano, nel quale erano state uccise 26 persone. L’India aveva attribuito l’attacco a un gruppo terroristico che accusa di essere sostenuto dal Pakistan, il quale però nega ogni coinvolgimento. Il Kashmir è una regione contesa da decenni tra i due paesi: è a maggioranza musulmana, come il Pakistan e a differenza dell’India, prevalentemente induista.

I rapporti tra India e Pakistan sono compromessi da sempre. I due paesi hanno combattuto cinque guerre e negli anni ci sono state molte schermaglie, attacchi e bombardamenti limitati o dimostrativi. Il Kashmir, al confine e conteso da entrambi, è un’area particolarmente problematica. In seguito all’attacco terroristico a Pahalgam l’India ha preso varie misure diplomatiche come ritorsione, e ci sono stati molti episodi di arresti e violenze contro la comunità musulmana che vive in Kashmir.

Redazione il Post

Truffa nel parcheggio del Centro Sicilia a Misterbianco: finta sorda, interviene il Codacons

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Il Codacons ha ricevuto una nuova segnalazione riguardante un episodio truffaldino verificatosi nel parcheggio esterno del centro commerciale Centro Sicilia, a Misterbianco

Secondo quanto riportato da una cittadina, “una ragazza bionda, sulla trentina, si è avvicinata al finestrino dell’auto sostenendo di essere sorda e chiedendo una donazione. Poiché ero sola in auto, sul lato passeggero e senza le chiavi, non avevo modo di chiudere il finestrino.

La ragazza ha infilato il braccio all’interno dell’abitacolo per porgermi un cartoncino. Il suo atteggiamento era molto invadente, tanto da indurmi a donare qualcosa solo per timore che la situazione potesse degenerare.”

“Purtroppo, episodi simili sono tutt’altro che rari – afferma il Segretario Nazionale Codacons, Francesco Tanasi – e sfruttano la buona fede e le circostanze di vulnerabilità delle vittime. L’utilizzo di falsi pretesti, come una disabilità, rende queste truffe ancora più gravi.

È fondamentale che i cittadini denuncino ogni episodio alle autorità, anche quando si tratta di piccoli importi: solo così si può mettere un freno a questi raggiri.”

Il Codacons invita chiunque dovesse imbattersi in situazioni analoghe a segnalarle tempestivamente, possibilmente documentando i fatti con foto o video, contattando l’associazione via email all’indirizzo sportellocodacons@gmail.com, su WhatsApp al 3715201706 o telefonicamente al 095441010.

Redazione 95047 Voltiamo pagina

 

Che lingua si parla dentro al conclave

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(AP Photo/Andrew Medichini)

Dentro alla Cappella Sistina non ci saranno interpreti, e i cardinali elettori arrivano da 71 paesi diversi: come si fa?

Dopo l’extra omnes, la formula latina che indica il “fuori tutti” e segna l’inizio del conclave per eleggere il nuovo papa, ad assistere i cardinali nella Cappella Sistina resterà il personale addetto ai pranzi e alle pulizie, ma nessun traduttore. Matteo Bruni, responsabile della sala stampa vaticana, ha chiarito che i 133 votanti non avranno interpreti: del resto l’accesso alla Cappella Sistina durante le procedure di voto è limitato a pochissime persone.

In caso di dubbi su un termine o per una frase contorta «si affideranno alla carità cristiana dei confratelli che potranno aiutare», dice Bruni. Certo, ci sarà comunque «una lingua ufficiale, cioè l’italiano», che verrà usata in varie procedure di voto: ma è difficile pensare che tutto il procedimento della scelta del papa, conversazioni comprese, possa svolgersi in italiano, cioè la lingua madre di appena 19 dei 133 cardinali elettori.

Papa Francesco ha infatti nominato molti più cardinali dei suoi predecessori, e da zone del mondo piuttosto eterogenee: oggi a Roma ci sono rappresentanti di 71 paesi, che per eleggere il nuovo papa dovranno prima di tutto capirsi. Per facilitare la comunicazione durante le congregazioni generali, le riunioni preliminari in cui nei giorni scorsi i cardinali hanno discusso lo stato della Chiesa, a tutti quelli che hanno voluto tenere un discorso è stato concesso di scegliere la lingua che preferivano, ed è stata assicurata la presenza di una traduzione simultanea. Ma nel conclave la situazione sarà molto diversa.

Il conclave più globale e affollato della storia sembra essere quello in cui il fattore linguistico inciderà di più, per almeno due motivi. Tra i 133 votanti ci sono persone che in molti casi non si sono mai incontrate e hanno bisogno di conoscersi meglio, ed è una prima differenza rispetto al passato. La seconda è che il latino, la lingua della tradizione, è formalmente conosciuta da tutti i cardinali perché usata in molti dei riti cattolici, ma è meno praticata nell’uso corrente rispetto al passato. Di fatto, il latino non è più la lingua franca e di riserva per chi arriva da paesi lontani e che a volte sono meno allineati rispetto a un tempo ai percorsi “educativi” e alle tradizioni della Chiesa di Roma.

(AP Photo/Andreea Alexandru)

Saranno in latino, ovviamente, le formule rituali del conclave. La scheda su cui ciascun cardinale scriverà il nome del prescelto riporta le parole Eligo in Summum Pontificem… (Scelgo come Sommo Pontefice…) e  in latino sarà la formula che ognuno pronuncerà prima di riporre nell’urna la scheda. Quando un candidato avrà ottenuto i due terzi dei voti, gli verrà rivolta la domanda: Acceptasne electionem factam in Summum Pontificem? («Accetti l’elezione a Sommo Pontefice?»). E quando sarà il momento di annunciare l’elezione, a darne notizia sarà la frase: Nuntio vobis gaudium magnum: habemus papam («Vi annuncio una grande gioia: abbiamo un papa»). Seguirà la comunicazione del nome del nuovo pontefice e del nome scelto per il pontificato, sempre in latino.

Al di là delle formule del rito, è difficile immaginare che il latino possa oggi servire come lingua di conversazione tra chi conduce una trattativa. Anche l’italiano – masticato da tutti i cardinali che per via del loro ruolo frequentano spesso il Vaticano e quindi l’Italia – però potrebbe non bastare.

Nei giorni scorsi il quotidiano spagnolo El País ha avanzato dei dubbi sulla padronanza dell’italiano di uno dei cardinali considerati papabili, l’arcivescovo di Marsiglia Jean-Marc Aveline. Nella chiesa romana di cui è titolare (ogni cardinale ne ha una, che gli è assegnata dal papa) ha di recente pronunciato un’omelia in italiano, forse per fugare ogni dubbio. Ma si trattava di un testo scritto, e per chi considera che un papa – anche perché vescovo di Roma – debba comunque parlare un italiano fluido, quell’omelia letta non sembra sia stato un test sufficiente.

Se il latino è la lingua della liturgia e delle formule rituali e l’italiano è quella del lavoro quotidiano e delle conversazioni ordinarie in Vaticano, nel governo della Chiesa esiste un’altra lingua semi-ufficiale: è il francese, infatti, la lingua ufficiale della diplomazia vaticana. È una tradizione che risale al XVII secolo, epoca del regno di Luigi XIV, quando il francese si affermò come lingua della diplomazia in tutta Europa. In Vaticano le lettere credenziali degli ambasciatori e molti atti ufficiali nei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati sono ancora redatti in francese.

Redazione Il Post

Dieci risposte sulla crisi fra India e Pakistan

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Rottami di un missile all'interno di una moschea di Pampore, nel Kashmir indiano, il 7 maggio (AP Photo/Dar Yasin)

Cosa sta succedendo, cos’è il Kashmir e quanto bisogna preoccuparsi: un breve ripasso di una storia lunga e complessa

Martedì sera l’India ha lanciato alcuni missili contro il Pakistan e il Kashmir pakistano, uccidendo almeno 20 persone. L’attacco, ha spiegato il governo indiano, è stato una ritorsione per l’attentato compiuto lo scorso 22 aprile a Pahalgam, nel Kashmir indiano. Il Pakistan ha promesso ritorsioni. È una storia complicata e le tensioni tra i due paesi, anche ma non solo per il controllo del Kashmir, vanno avanti da decenni. Abbiamo messo insieme dieci domande e risposte per capire un po’ meglio quello che sta succedendo, e quello che potrebbe succedere nei prossimi giorni.

1. Perché l’India ha attaccato il Pakistan?
Il governo indiano ha detto che i bombardamenti sono una ritorsione per gli attentati terroristici di aprile in cui erano state uccise 26 persone. L’India sostiene che il gruppo armato islamista che li ha compiuti, il Fronte della Resistenza (anche conosciuto come “Resistenza del Kashmir”), sia aiutato e sostenuto dal Pakistan, che ha sempre negato le accuse. Mercoledì, dopo gli attacchi, il ministero degli Esteri indiano ha detto che l’India ha fatto passare due settimane dall’attentato aspettandosi che il Pakistan facesse qualcosa contro il Fronte, e che ha colpito ora perché l’intelligence avrebbe scoperto che il gruppo stava pianificando nuovi attentati.

2. Il “Fronte della Resistenza” è appoggiato davvero dal Pakistan?
Non c’è una risposta certa e condivisa a questa domanda. Il Fronte della Resistenza è un gruppo piccolo e poco noto, designato come organizzazione terroristica dall’India nel 2023. Secondo l’intelligence indiana e diversi analisti è emanazione del più grande Lashkar-e-Taiba, che ha una storia di grossi attentati in India. Il Fronte aveva inizialmente rivendicato gli attacchi di Pahalgam con un messaggio sui social ma poi ha negato ogni responsabilità e disconosciuto la rivendicazione, sostenendo che fosse il risultato di un attacco informatico volto a screditarlo.

Il governo pakistano da tempo smentisce ogni appoggio economico o militare ai gruppi armati del Kashmir (che erano palesi invece negli anni Novanta), pur condividendone gli intenti e mantenendo una vicinanza di qualche tipo. Ha chiesto all’India di condividere le prove su cui basa le sue accuse: il governo indiano per ora non ne ha diffuse di concrete.

3. Perché esistono un Kashmir indiano e uno pakistano?
India e Pakistan nacquero dalla divisione, frettolosa e cruenta, dell’ex colonia dell’India britannica nel 1947, quando il Regno Unito decise di abbandonare l’area. I territori vennero divisi su base religiosa: quelli a maggioranza indù diventarono l’India, quelli a maggioranza musulmana il Pakistan. Il destino del Kashmir non venne deciso: la sua popolazione era prevalentemente musulmana, ma lo governava un re indù che per qualche tempo sperò di poter mantenere il potere in uno stato indipendente. Nel giro di qualche mese truppe pakistane entrarono in Kashmir, il re per tutelarsi acconsentì a far diventare il suo regno parte dell’India. Iniziò la prima guerra fra India e Pakistan, che nel 1949 si chiuse con una divisione della regione in due parti, controllate dai due paesi.

Da allora quel confine di 740 chilometri è rimasto lo stesso, così come le posizioni dei due paesi, che reclamano l’intera regione. La parte indiana godeva fino al 2019 di una ampia autonomia che le è stata poi revocata dal governo del primo ministro indiano Narendra Modi. A complicare il tutto c’è una parte del Kashmir, quella occidentale, controllata e amministrata dalla Cina: ci sono ricorrenti schermaglie e accordi non sempre solidissimi con l’India anche lì.

Una mappa della regione della CIA, agenzia di intelligence statunitense, con i confini del 2022 (US Central Intelligence Agency / Fowler, Public domain, via Wikimedia Commons)

4. Come stanno raccontando la crisi i giornali locali
I media indiani la chiamano “Operazione Sindoor”, il nome scelto dal primo ministro Narendra Modi. Significa “vermiglio” in lingua hindi ed è il colore di un pigmento che le donne induiste utilizzano come simbolo del matrimonio: è un riferimento al fatto che negli attentati gli uomini sarebbero stati uccisi di fronte alle loro mogli.

Il racconto dei media indiani e pakistani è agli antipodi ma ugualmente polarizzato. I primi si concentrano sull’obiettivo di «antiterrorismo» dell’operazione e sostengono la narrazione del governo: per esempio l’Hindustan Times ha una mappa delle «nove infrastrutture terroristiche» colpite e India Today elogia «l’arte dell’inganno» di Modi, cioè la tattica d’aver colpito a sorpresa. I secondi titolano sui «raid notturni codardi» (la tv privata Geo). Il Daily Jang, principale giornale in lingua urdu, celebra l’abbattimento di cinque caccia indiani scrivendo: «l’India ammette la sconfitta alzando bandiera bianca» mentre Dawn, il più autorevole e in lingua inglese, fa una copertura più sobria e basata sulle fonti istituzionali.

Un post propagandistico dell’esercito indiano con il nome dell’operazione

5. Perché India e Pakistan non vanno d’accordo?
Per una serie di motivi, le cui radici sono nella partizione del 1947, nel caos, nelle migrazioni e nella violenza che seguirono. Il Kashmir è il terreno di disputa principale, ma non l’unico. Le differenze religiose sono il motivo di distanza maggiore, soprattutto da quando l’India di Modi ha abbandonato l’approccio da stato laico e multireligioso, rendendo l’induismo sempre più religione “di stato”.

L’India da decenni accusa il Pakistan di finanziare il terrorismo islamico e i movimenti indipendentisti, il Pakistan considera l’India un pericolo per la sua esistenza da quando nel 1971 intervenne nella guerra di liberazione del Bangladesh (allora una parte del Pakistan, poi stato indipendente). Altri motivi di tensione riguardano lo sfruttamento delle risorse idriche e il posizionamento nei conflitti regionali e nelle alleanze con le potenze globali.

Sostenitori pakistani della Lega musulmana Markazi bruciano una bandiera indiana a Peshawar, per protesta contro gli attacchi (AP Photo/Muhammad Sajjad)

6. Quante guerre hanno combattuto i due paesi?
Cinque guerre maggiori, e una lunga serie di schermaglie, attacchi e bombardamenti limitati o dimostrativi. Dopo quella del 1947, ci sono state altre tre guerre in Kashmir, nel 1965, nel 1984 e nel 1999: la prima non cambiò i confini, le ultime due consolidarono limitatamente le posizioni indiane. In mezzo ci fu la guerra legata all’indipendenza del Bangladesh: nel dicembre 1971 l’intervento indiano fu risolutivo e dopo due settimane di intensi combattimenti l’esercito pakistano si arrese (90mila soldati pachistani furono fatti prigionieri).

Le crisi al confine più recenti e rilevanti sono quelle del 2016, con l’intervento di forze speciali indiane; del 2019, con bombardamenti aerei indiani; e del 2021, con scontri a fuoco lungo il confine.

Soldati indiani pattugliano il confine col Pakistan sul lato indiano, nella regione del Jammu e Kashmir

Soldati indiani pattugliano il confine col Pakistan sul lato indiano, nella regione del Jammu e Kashmir (AP Photo/Channi Anand)

7. La situazione attuale è diversa e più preoccupante?
Al momento non ci sono grandi motivi per ritenere che i due paesi vogliano davvero una guerra su larga scala: negli ultimi decenni, dopo attacchi terroristici di gruppi o movimenti islamici, i vari governi indiani hanno alimentato la retorica anti Pakistan e spesso condotto con toni molto aggressivi attacchi limitati. In questo caso l’India ha definito i suoi attacchi «misurati, responsabili e concepiti per evitare una escalation», sostenendo di aver colpito strutture «legate al terrorismo». Il Pakistan vive un periodo di sostanziale debolezza, soprattutto interna, e sembra avere ancora meno interessi a essere coinvolto in una guerra ampia, nonostante i proclami.

8. Le forze militari dei due paesi sono simili?
Quelle dell’India sono superiori, per numero di soldati, spese, mezzi e tecnologia. Il Pakistan ha comunque forze militari in grado di esercitare deterrenza e più concentrate su un territorio minore. Soprattutto, entrambi i paesi hanno armi nucleari, stimate in circa 170 testate ognuna.

La parata dei soldati indiani e pakistani durante la cerimonia giornaliera di chiusura del confine, al varco di Wagah, il 5 maggio

La parata dei soldati indiani e pakistani durante la cerimonia giornaliera di chiusura del confine, al varco di Wagah, il 5 maggio (AP Photo/K.M. Chaudary)

9. Chi governa India e Pakistan?
In India dal 2014 il primo ministro è Narendra Modi, del partito Bharatiya Janata Party (BJP): è al terzo mandato, il BJP è un partito conservatore, liberista in economia, fortemente nazionalista e che si presenta come difensore della religione indù, anche discriminando le minoranze religiose. Durante il governo di Modi, l’India ha ottenuto buoni risultati economici, ma senza redistribuzione delle ricchezze e riduzione delle diseguaglianze. È anche diventata un paese più autoritario, con minori libertà personali e di espressione.

Dal marzo del 2024 in Pakistan il primo ministro è Shehbaz Sharif, della Lega musulmana del Pakistan (PML-N), di centrodestra, a capo di un governo di coalizione con il Partito Popolare Pakistano (PPP), di centrosinistra, suo storico rivale. L’accordo escluse chi aveva vinto le elezioni, il Movimento per la Giustizia (PTI) dell’ex primo ministro nazionalista e populista Imran Khan, in carcere per diverse condanne per corruzione (i candidati si erano presentati come indipendenti perché il partito era stato dichiarato illegale). Le dispute intorno a Khan e alla sua detenzione, che i sostenitori ritengono politicamente motivata, continuano a essere centrali nel dibattito pubblico, l’esercito ha un enorme potere politico ed economico e il paese vive da anni una profonda crisi economica.

10. Con chi stanno Stati Uniti e Cina?
L’India è un interlocutore importante per gli Stati Uniti in chiave anticinese, anche se negli ultimi mesi ci sono state diverse tensioni tra i due paesi. Tra Modi e il presidente Donald Trump c’è comunque una certa sintonia politica, confermata anche da proficue trattative sulla questione dei dazi.

Il Pakistan è stato uno storico alleato degli Stati Uniti, che lo ritengono tuttora un partner nella lotta al terrorismo, ed è stato sia una loro base operativa durante i vent’anni della guerra in Afghanistan sia il posto dove le forze speciali statunitensi uccisero l’ex leader di al Qaida Osama bin Laden.

La Cina ha migliori rapporti col Pakistan, anzitutto economici, mentre è una rivale regionale dell’India, con cui ha un’annosa disputa territoriale sul confine himalayano (recentemente ci sono stati progressi). Entrambi i paesi hanno condannato l’attacco indiano, comunque senza schierarsi e auspicando che la crisi rientri: Trump l’ha definita «una vergogna», il governo cinese «deplorevole».

(11) Bonus. Quali gruppi armati sono attivi in Kashmir?
Vari. Come detto il principale è Lashkar-e-Taiba che significa “l’esercito dei puri” ed è stato fondato nel 1990: il Pakistan l’ha messo fuori legge nel 2002, su pressione internazionale, e nel 2019 ha condannato il suo fondatore Hafiz Saeed a 31 anni di carcere. C’è anche Jaish-e-Mohammad (“l’esercito del profeta Maometto”), che ha legami con i Talebani e al Qaida. Mercoledì l’esercito indiano ha detto d’aver colpito anche sue basi e il fondatore, Maulana Masood Azhar, ha confermato che gli attacchi hanno ucciso dieci membri della sua famiglia: i media indiani hanno dato grande risalto alla cosa. Altri gruppi hanno perso influenza nel corso del tempo: tra loro Hizbul Mujahideen, da cui è nato un sottogruppo chiamato Al Badr. Infine c’è Ansar Ghazwat-ul-Hind, l’affiliato locale di al Qaida. E poi il Fronte della Resistenza, al centro di questa crisi: a differenza degli altri, ha un’impostazione laica e anche il nome non ha riferimenti all’Islam.