La Crusca: Meloni andrebbe chiamata la Presidente del Consiglio. L’articolo al maschile è un ritorno al passato

Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, spiega quale uso dell’articolo

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di Jacopo Storni

«Non c’è dubbio che l’articolo migliore per chiamare Giorgia Meloni sia il femminile, l’Accademia della Crusca ha sempre usato il femminile, e questo vale per qualsiasi tipo di presidente nel caso sia donna. La scelta del maschile è un ritorno al passato perché risponde a un’ideologia conservatrice. Detto questo non è scientificamente dimostrabile che ogni ritorno al passato sia di per sé qualcosa di negativo. Inoltre mi chiedo come mai coloro che hanno sostenuto con più forza la battaglia della declinazione al femminile non abbiano mai saputo esprimere una presidente del consiglio donna».
Sono le parole di Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, in merito alla scelta di Giorgia Meloni di appellarsi “il presidente del Consiglio”.

Presidente Marazzini, la declinazione al femminile è dunque più corretta grammaticalmente?

Il femminile offre una soluzione che porta coerenza nel sistema linguistico, ma per secoli il “maschile non marcato” (che è non affatto un neutro, ma che vale per maschile e femminile) ha funzionato benissimo. Non è una questione di grammatica elementare.

E’ soprattutto una questione ideologica?

Appunto: è questione ideologica. Prima che Alma Sabatini pubblicasse il suo primo intervento, nel 1986 (ma vedo che tutti citano sempre l’intervento del 1987, dimenticando la data giusta), a nessuno era mai venuto in mente che esistesse una questione del genere. Alma Sabatini era esponente del movimento femminista, e poté pubblicare le sue tesi grazia alla disponibilità del governo allora in carica, presieduto da Craxi. La politica ha poi guidato le scelte del movimento a favore di un uso definito “non sessista” della lingua italiana. Alcune delle rivendicazioni erano assolutamente sbagliate, alcune erano più consistenti. Tra quelle sbagliate, c’era l’idea che il suffisso “-essa” fosse offensivo. Per queste si tentò di abolire “studentessa”, una parola, mi pare, che esiste ancora, con buona pace di tutti. Se si dice la cassiera, la giornalista, la commercialista e la parrucchiera, perché non si dovrebbe dire anche la presidente? Appunto: questa è la tesi dei sostenitori della battaglia antisessista. Cariche e professioni possono – essi dicono – essere volte al femminile, non solo quando sono professioni umili. Oggi, però, c’è chi vorrebbe giornalist*, o giornalistƏ, o giornalist3 per il plurale. In tal caso non avremmo nemmeno bisogno di usare il femminile. Un segno unico coprirebbe tutto.

Qual è l’ideologia, secondo lei, alla base della scelta di Meloni?

Esattamente l’ideologia di un atteggiamento “conservatore”. Il “maschile non marcato” è sicuramente più antico delle rivendicazioni del linguaggio di genere. Del resto, anche dopo la diffusione delle tesi di Alma Sabatini, il linguaggio “non sessista”, pur conquistando via via spazio, non è diventato di uso assoluto e indiscusso. Nel 2003, per esempio, Giorgio Napolitano scrisse l’introduzione ai discorsi parlamentari di Nilde Iotti, prima presidente della Camera dei deputati. Napolitano usò serenamente il maschile non marcato, che prevede il titolo di “il Presidente Nilde Iotti”, al maschile.

Lei condivide questa ideologia?

Quale? Quella di Napolitano? O quella di Giorgia Meloni? Come vede bene, la medesima soluzione linguistica risponde a due ideologie diverse: la conservazione di un uso linguistico del passato può essere dettata dal desiderio di prendere le distanze dai movimenti femministi, o può essere legata ad abitudini generazionali, se si ha una certa età, come il Presidente Napolitano. Non si rischia un ritorno indietro di decenni? Senza dubbio l’atteggiamento che abbiamo definito “conservatore” cerca di collegarsi al passato e rifiuta le novità in cui non crede. Del resto possiamo dire che chi non adotta lo schwa è un conservatore o un nemico della società? Forse possiamo dirlo, c’è sicuramente chi lo pensa, ma non è detto che ciò sia vero. Non possiamo essere sicuri che il conservatore abbia fisiologicamente torto.

E’ una battaglia giusta quella di declinare al femminile i ruoli?

Secondo lei è una battaglia importante? Penso che sia una battaglia legittima. Naturalmente, posso chiedermi come mai coloro che hanno sostenuto con più forza questa battaglia non abbiano mai saputo esprimere una presidente del consiglio donna. Giorgia Meloni ha appunto ironizzato, nella sua risposta in Parlamento, contro i propri avversari. Non ritiene – così ha detto – che adottando il termine “capatreno” si risolvano i problemi delle donne. Probabilmente c’è stato chi ha insistito molto sulla lingua, più sulla lingua che sulle cose concrete, che a loro volta si riflettono poi sulla lingua.

I parlamentari che intervengono in aula (oppure i giornalisti) come dovrebbero chiamare Meloni?

A mio giudizio, ognuno di loro dovrebbe usare la forma che ritiene più vicina alla propria scelta ideologica. Quindi ci sarà chi userà il femminile, chi il maschile. Mi sembra molto semplice. Quanto ai giornalisti, credo sia possibile che il direttore di un giornale imponga la scelta, perché ogni giornale ha in genere una propria linea politica ben definita. Naturalmente, se il giornale ospita un’intervista, con il virgolettato, dovrà rispettare la scelta linguistica dell’intervistato.

Non si corre il rischio di creare una incomprensione comunicativa se una donna si fa chiamare il presidente?

Direi di no, se si fa ricorso alle formule che si usavano quando il maschile non marcato era comune. Giorgio Napolitano scrive “al Presidente Nilde Iotti”: il nome mostra che si tratta di una donna. Lo stesso se dico “Il presidente signora XY”. Se poi mi si obietta che, usando il femminile, le cose sono più semplici e lineari, rispondo che concordo. Tant’è vero che io uso il femminile. Ma non ritengo di dover imporre a tutti le mie scelte: la differenza principale sta proprio in questa tolleranza. Proprio l’atteggiamento rigido dei “progressisti” serve forse oggi a spiegare le resistenze di Giorgia Meloni di fronte al femminile, anche se, alla fine, ha dichiarato saggiamente “chiamatemi come volete”. Aggiungo che una delle regole del linguaggio non sessista è l’abolizione dell’articolo prima del cognome. Ebbene, questa scelta non crea, in certi casi, incomprensione? Infatti io non la rispetto. Se Meloni può farsi chiamare il presidente, allora perché, tanto per fare un esempio, uno scienziato uomo non potrebbe farsi chiamare la scienziata? Perché farebbe pensare solo alle rivendicazioni recenti di “genere fluido”: come accade in quelle scuole in cui non si chiamano gli allievi con il nome, perché il nome implica un sesso maschile o femminile. Il femminile per il maschile non ha alle spalle secoli di “maschile non marcato”: dunque è un’innovazione senza storia, o, per meglio dire, con una storia recentissima, legata alle nuove rivendicazioni sessuali. La lingua, insomma, ha le sue tradizioni, piaccia o no.

Non ci si sveglia una mattina dettando regole nuove. Chi ha l’ambizione di cambiare ha pur diritto di tentare, ma non può pensare che a ciò corrisponda l’obbligo generale di uniformarsi, come soldatini nei ranghi.

 

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