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Vorreste saperlo se svilupperete l’Alzheimer?

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Un gruppo di persone sedute davanti a un lago a Otepaa, Estonia (Sean Gallup/Getty Images)

Attualmente diagnosticare l’Alzheimer è un processo complesso, costoso e spesso fastidioso. Servono esami non sempre facilmente accessibili, come la puntura lombare, per l’analisi del liquido cerebrospinale, e la tomografia a emissioni di positroni (la PET). Le cose però potrebbero cambiare grazie ai recenti progressi nella ricerca di biomarcatori ematici, cioè molecole la cui alterazione nel sangue è correlata alla malattia e può essere rilevata anche prima dell’insorgenza dei sintomi, che di solito compaiono dopo i 65-70 anni.

Se, quando e a chi somministrare i test per i biomarcatori è un tema che solleva però questioni complesse e richiede attente valutazioni. Oltre ai potenziali benefici, serve infatti considerare le implicazioni etiche e psicologiche di far conoscere alle persone qual è il loro rischio di sviluppare una malattia per cui al momento non esistono cure. È una delle ragioni per cui attualmente i test non sono disponibili per la popolazione generale ma solo come strumenti di supporto alla diagnosi tradizionale.

Uno di questi è stato da poco autorizzato negli Stati Uniti dalla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici. Prodotto dall’azienda giapponese Fujirebio, il test permette di misurare i livelli nel sangue di due proteine associate a un accumulo di placche nel cervello, uno dei tratti distintivi dell’Alzheimer. Le placche possono formarsi anni prima di qualsiasi sintomo di deterioramento cognitivo, ma il test – che non basta da solo né a diagnosticare né ad escludere la malattia – è stato autorizzato soltanto per l’utilizzo clinico su pazienti sintomatici e di almeno 55 anni.

La notizia è stata accolta dagli specialisti con cautela ma anche ottimismo, perché il test rende il processo della diagnosi meno invasivo e potenzialmente estendibile su larga scala. Questo potrebbe avere ripercussioni importanti sullo sviluppo e sulla valutazione di nuove terapie. «Una diagnosi biologica più accessibile permetterà di reclutare con maggiore efficienza i pazienti nei trial clinici, in fase più precoce e con maggiore accuratezza rispetto alla diagnosi clinica tradizionale», spiega la neurologa Federica Agosta, direttrice dell’Unità di Neuroimaging delle malattie neurodegenerative dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e professoressa associata di neurologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele.

Anche se il test non è utilizzabile sulla popolazione generale, è probabile che la sua autorizzazione renderà medici, pazienti e caregiver più consapevoli di questa innovazione nella diagnosi precoce. E altri test già sviluppati ma non ancora commercializzati potrebbero diventare in futuro ampiamente disponibili. Può quindi avere senso cominciare a interrogarsi sulle difficoltà psicologiche e sulle diverse predisposizioni delle persone di fronte alla possibilità di conoscere in anticipo se svilupperanno l’Alzheimer, oltre che sull’opportunità di farlo.

Una signora anziana inquadrata di spalle tiene in mano una foto mentre è seduta davanti a un’operatrice in piedi dietro una scrivania

Un’ospite della clinica specialistica “Cuidem la Memòria” regge in mano l’immagine di una pecora durante un’attività per pazienti affetti da Alzheimer, a Barcellona, in Spagna, il 2 agosto 2012 (David Ramos/Getty Images)

Uno studio pubblicato a maggio sulla rivista scientifica JAMA ha coinvolto negli Stati Uniti 274 persone con 65 anni o più, senza sintomi di Alzheimer né di altre demenze. Per una ricerca sull’invecchiamento avevano messo a disposizione i risultati di vari esami e il 40 per cento di loro si è rifiutato di conoscere la stima del proprio rischio di sviluppare l’Alzheimer, nonostante tutti avessero inizialmente espresso interesse riguardo alla possibilità di saperlo.

L’accuratezza della previsione aveva comunque dei limiti (82-84 per cento) e una delle spiegazioni fornite dalle persone per motivare il loro rifiuto di conoscere quella previsione è che le avrebbe comunque lasciate nel dubbio, cosa difficile da gestire psicologicamente.

La spiegazione più comune comunque è stata che conoscere la previsione sarebbe stato un peso difficile da sostenere. Molti partecipanti hanno attribuito le ragioni della loro riluttanza all’influenza di precedenti esperienze personali negative e traumatiche nel prestare assistenza a persone malate di Alzheimer. Tra chi aveva o aveva avuto almeno un caso in famiglia i rifiuti sono stati infatti maggiori rispetto a quelli di chi non ne aveva.

Dai risultati è emersa anche una maggiore propensione al rifiuto tra i partecipanti neri. La loro predisposizione negativa, secondo le autrici e gli autori dello studio, potrebbe essere spiegata da precedenti esperienze di stigma e discriminazione. Essere cresciuti in un contesto di ingiustizia sociale, insomma, potrebbe rendere agli occhi di quelle persone più gravosa e angosciante la prospettiva di avere l’Alzheimer.

In considerazione dei recenti progressi nella ricerca sui biomarcatori ematici, è già in fase di revisione una serie di raccomandazioni europee per l’uso dei biomarcatori nella diagnosi delle malattie neurodegenerative pubblicata nel 2024 da esperti di diverse università e istituti di ricerca in Europa, tra cui Agosta.

Già quelle linee guida, spiega Agosta, avevano posto al centro della riflessione «la necessità di decidere quando, per chi e quali biomarcatori utilizzare, in funzione del contesto clinico, dello stadio della malattia e dello scopo della valutazione». La disponibilità di biomarcatori ematici «apre scenari nuovi e potenzialmente rivoluzionari», ma rende ancora più stringente la necessità di definire percorsi diagnostici chiari, adottare standard analitici e clinici su scala internazionale, e avere «un quadro normativo ed etico condiviso, che tuteli i pazienti e ne rispetti il diritto all’informazione e alla scelta».

Secondo Agosta è inoltre fondamentale la formazione degli operatori. Specialmente nel caso di biomarcatori che indicano una malattia in fase preclinica o una vulnerabilità per una malattia, è necessario, dice, «spiegare bene il significato clinico del test, i suoi limiti, e le conseguenze concrete. Cosa comporta, sapere? Cosa si può fare in più o in meno, se il test è positivo o negativo?».

Soltanto in questo modo il paziente può decidere consapevolmente se proseguire con la valutazione o no, e soltanto in questo modo la diagnosi ha senso. «Ogni persona ha la libertà di scegliere quanto vuole conoscere e come desidera affrontare il proprio futuro, soprattutto in assenza di sintomi e in assenza di trattamenti preventivi definitivi», dice Agosta.

Poiché allo stato attuale i test sono disponibili soltanto in ambito clinico e in presenza di sintomi, quello che bisogna chiedersi non è tanto quale sia la disponibilità delle persone a farli e a conoscerne il risultato, ma quali pazienti dovrebbero farli, e con quali altre informazioni. Non ci sono molti dubbi infatti sul fatto che il risultato del test da solo, su persone asintomatiche, avrebbe gravi implicazioni psicologiche e un’utilità molto limitata.

La possibilità di somministrare i test deve essere ponderata caso per caso, tenendo in conto sia le implicazioni psicologiche sia l’utilità limitata del test per le persone asintomatiche. Non è la stessa cosa, per esempio, che fare un esame per diagnosticare il cancro al seno, ha scritto sul sito The Conversation Claudia Cooper, psicologa della Queen Mary University a Londra. In quel caso, a chi ha un rischio molto alto di ammalarsi possono essere proposte misure preventive come farmaci, interventi chirurgici o screening avanzati. Ma nel caso dell’Alzheimer non esiste ancora niente di paragonabile a queste misure, per ridurre nelle persone asintomatiche il loro rischio di svilupparlo.

Questo non significa che concentrarsi sull’individuazione dei rischi futuri di sviluppare una demenza, prima di disporre di terapie efficaci, sia insensato. Lo sviluppo dei trattamenti, conclude Cooper, «dipende dalle nuove scoperte scientifiche che ci stanno aiutando a diagnosticare precocemente l’Alzheimer», perché «trovare una cura per una malattia richiede una comprensione approfondita di come si sviluppa».

Redazione il Post

Il doppio gioco della Cina in Myanmar

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Un combattente di uno dei molti gruppi armati del Myanmar (AP Photo/Esther Htusan)

Nella guerra civile in Myanmar la posizione ufficiale della Cina è di non interferenza.

In realtà negli ultimi anni ha appoggiato in vari modi e circostanze sia la giunta militare che i gruppi ribelli che vorrebbero destituirla, con l’obiettivo di difendere i propri investimenti miliardari e interessi politici nel paese. Secondo vari osservatori questo doppio gioco sta contribuendo a prolungare la guerra, cominciata nel 2021, e sta creando diversi problemi alla resistenza, che dopo anni di combattimenti controlla ampie parti di territorio ma che non riesce ad arrivare nei luoghi centrali del potere, dove la giunta è ancora forte.

La Cina ha fornito aiuto politico e militare alla giunta sin dal colpo di stato con cui prese il potere nel 2021. Ha inviato armi pesanti e jet con cui sono stati condotti gli attacchi contro i ribelli che hanno ucciso anche migliaia di civili. L’ha sostenuta nei contesti internazionali usando lo strumento del veto per bloccare risoluzioni ONU che criticavano la repressione militare della giunta e il disastro umanitario che aveva generato. Ha espresso contrarietà anche nei confronti della Corte penale internazionale per aver emesso un mandato di cattura contro il generale Min Aung Hlaing, accusato di crimini contro l’umanità. Il mese scorso il presidente cinese Xi Jinping lo ha incontrato pubblicamente a Mosca.

Inoltre, durante il disastroso terremoto di fine marzo, la Cina è stata tra i primi e più solerti paesi a inviare aiuti in un contesto in cui era evidente che la giunta non avesse né gli strumenti né la volontà di intervenire a sostegno della popolazione. È stato modo tra le altre cose anche per migliorare la propria percezione tra la popolazione e ridurre il sentimento anticinese.

Dall’altro lato la Cina ha rapporti costanti con diversi dei gruppi ribelli che combattono contro la giunta. Mantenerli è fondamentale per garantire il fluire del commercio tra i due paesi, visto che la resistenza controlla ormai da tempo più di metà del territorio birmano mentre la giunta resta arroccata nelle principali città, Naypyidaw e Yangon. La Cina non è solo il loro principale fornitore di armi per molti di questi gruppi ribelli, ma anche di risorse fondamentali come elettricità, connessione internet o acqua.

Molto spesso la Cina ha usato la sua influenza sui gruppi ribelli per indirizzare la guerra nella direzione che le era più congeniale. Si è visto per esempio con la città di Lashio, a un centinaio di chilometri dal confine cinese. I ribelli l’avevano conquistata ad agosto dell’anno scorso dopo una lunga offensiva, ma la Cina aveva iniziato a fare pressione affinché la riconsegnassero alla giunta: la città è vicino a grosse infrastrutture cinesi a cui gli scontri e i bombardamenti dell’esercito rischiavano di arrecare grossi danni. La Cina ha quindi tagliato l’elettricità, la connessione internet e ha interrotto qualsiasi forma di commercio con i ribelli, costringendoli ad abbandonare Lashio.

Per i ribelli l’appoggio della Cina è un’arma a doppio taglio anche per un altro motivo: se ne parla al plurale perché i gruppi armati che combattono contro la giunta in Myanmar sono moltissimi e agiscono in modo frammentato, spesso senza un coordinamento efficace. È una delle principali ragioni che indeboliscono la resistenza birmana, e la politica di interferenza cinese tende ad alimentare questo aspetto perché favorisce alcuni gruppi su altri sulla base dei propri interessi.

Ye Myo Hein, esperto di relazioni internazionali e di Myanmar, ha scritto sulla rivista Foreign Affairs che ad esempio la Cina guarda con grande sospetto tutti quelli che sono allineati con il governo di unità nazionale, che rappresenta la vecchia amministrazione civile e che guida la lotta armata dall’esilio. Questo perché lo ritiene eccessivamente vicino all’Occidente, e teme che – se dovesse prendere il potere al posto della giunta – stringerebbe accordi con i paesi occidentali nella regione. Per questo in alcuni casi ha cercato di dissuadere vari gruppi armati dal collaborarci.

Quello che accade al di là degli oltre 2.200 chilometri di confine che separano Cina e Myanmar è di così grande interesse per il regime cinese per ragioni soprattutto economiche e commerciali. La Cina importa dal Myanmar più della metà delle materie prime critiche di cui ha bisogno per il settore tecnologico e per la transizione energetica. In Myanmar sono presenti anche grossi giacimenti di gas naturale, petrolio, metalli e perle preziose.

Il presidente cinese Xi Jinping (destra) e il generale Aung Hlaing on the sidelines of the durante l’incontro a Mosca, 9 marzo 2025 (Ding Haitao/Xinhua via ZUMA Press)

La Cina ha investito decine di miliardi di dollari per includere il paese all’interno della Belt and Road Initiative, cioè il gigantesco programma di investimenti nelle infrastrutture di vari paesi del mondo che usa da anni anche come strumento per allargare la sua influenza politica all’estero

In Myanmar ha costruito gasdotti che lo collegano alla regione meridionale cinese dello Yunnan, e porti che le permettono di accedere all’oceano Indiano senza dover passare dallo stretto di Malacca (quello che separa l’isola di Sumatra dalla Malesia e che forma una specie di imbuto tra il mar Cinese meridionale e il golfo del Bengala).

Dal colpo di stato il commercio di terre rare tra Myanmar e Cina è aumentato, soprattutto grazie alle nuove estrazioni illegali, ma è anche diventato più rischioso e complicato a causa degli scontri e del proliferare delle organizzazioni criminali. La Cina si interfaccia coi gruppi ribelli perché controllano il territorio e vuole assicurarsi che il commercio continui a fluire, ma quando questo mette a repentaglio le sue infrastrutture li costringe alla ritirata per garantire sicurezza e stabilità dei suoi interessi.

Mantiene infine un dialogo aperto con la giunta per garantire la sicurezza dei suoi investimenti e del personale che lavora in quelle infrastrutture: per il porto di Kyaukphyu, per esempio, ha firmato un accordo coi militari che le permette di mandare direttamente i propri uomini, ufficializzando così la prima presenza militare cinese in Myanmar.

Redazione Il Post

Argentina, il mondo della disabilità contro Milei: “Siamo in crisi, non possiamo più aspettare”

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Buenos Aires, le associazioni a supporto delle persone con disabilità, comprese le famiglie e i fornitori di servizi, hanno protestato contro i tagli del governo di Javier Milei che hanno aggravato anni di sottofinanziamento. La richiesta principale dei manifestanti è l’approvazione del disegno di legge sull’emergenza disabilità, fondamentale per affrontare la crisi finanziaria del settore. Una delle principali preoccupazioni è l’urgente necessità di aggiornare il tariffario nazionale che determina i compensi per terapisti e altri professionisti che assistono le persone con disabilità. Molti centri di assistenza e scuole rischiano di chiudere a causa delle attuali misure di austerità.

Il governo sostiene che questi ritardi sono dovuti a irregolarità riscontrate nelle amministrazioni precedenti.

La manifestazione di Buenos Aires fa parte di un movimento più ampio a livello nazionale, con proteste simili in tutte le principali città argentine, tra cui Mendoza, Córdoba, Bariloche, Posadas, Santa Fe e Paraná. I dati della Casaie (Camera argentina dei servizi di sostegno all’integrazione scolastica) rivelano che le tariffe dei servizi per la disabilità sono rimaste indietro rispetto all’inflazione. Tra gennaio e aprile di quest’anno, le tariffe non hanno registrato alcun aumento nonostante un’inflazione cumulativa dell’11,6%.

Redazione La Presse

 

Il 14% degli adulti fumatori ha una qualche forma di disabilità

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Il doppio rispetto ai non fumatori

Circa un fumatore adulto su 7 (il 14% degli adulti fumatori) ha un qualche grado di disabilità; la diffusione delle disabilità è doppia tra i fumatori rispetto a chi non ha mai fumato.

E’ quanto emerge da uno studio pubblicato su Tobacco Control, basato su dati americani e condotto presso i Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta.

Nel complesso, i dati suggeriscono che il 40% dei 25 milioni di adulti fumatori in Usa sperimenta un qualche livello di difficoltà funzionale. Nel 2019, il fumo è stato il terzo fattore di rischio di disabilità negli Stati Uniti. I ricercatori hanno analizzato i dati di 150.220 persone provenienti dalla National Health Interview Survey (NHIS) per il periodo 2019-2023. I partecipanti sono stati raggruppati in fumatori, ex-fumatori o non fumatori.

Gli esperti hanno misurato il grado di difficoltà funzionale in 6 aree principali: vista (anche quando si indossano gli occhiali); udito (anche con un apparecchio acustico); mobilità (camminare o salire gradini); comunicazione (capire o essere capiti); cognizione (memoria e concentrazione); cura di sé (lavarsi e vestirsi).

I partecipanti sono stati considerati disabili se hanno riferito di avere “molte difficoltà” o di “non riuscire a fare nulla” in una o più di queste 6 aree principali. È emerso che un fumatore su 7 (14%) ha una disabilità rispetto al 12,5% degli ex-fumatori e al 7% dei non fumatori. Le disabilità più comuni emerse sono la mobilità (8% dei fumatori, 8% degli ex-fumatori e 4% dei non fumatori) e i problemi cognitivi (4,5%, 3% e 2%).

Più della metà dei fumatori (54%) ha riferito “qualche difficoltà”, “molte difficoltà” o di “non poter fare nulla” per almeno un tipo di disabilità. La prevalenza di disabilità visive, uditive, motorie e cognitive tra i fumatori è doppia rispetto a coloro che non hanno mai fumato. Complessivamente, l’analisi rivela che dei 25 milioni di adulti stimati che fumano ancora negli Stati Uniti, circa il 40% sperimenta almeno un certo livello di difficoltà funzionale, concludono i ricercatori.

Redazione Ansa

 

L’assessore Capponi: “Avviso sull’inclusione delle persone sorde o con ipoacusia”

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L’assessore alle Politiche sociali, Caterina Capponi, in una nota, comunica “la pubblicazione dell’Avviso pubblico finalizzato alla costituzione di un partenariato per la co-progettazione e la successiva gestione di un intervento da candidare al finanziamento nell’ambito del Fondo per l’inclusione delle persone sorde e con ipoacusia, istituito con Decreto del Ministro per le Disabilità dell’8 gennaio 2025.

Il fondo, destinato all’annualità 2023 – è detto nella nota – assegna alla Regione una quota pari a 204.751,00 euro, da impiegare per sostenere progetti aggiuntivi rispetto alla programmazione regionale, orientati a promuovere una piena ed effettiva inclusione sociale delle persone sorde e con ipoacusia”.

“Questo Avviso – afferma l’assessore Capponi – rappresenta un passo concreto verso una società più giusta, inclusiva e accessibile per tutti. Con queste risorse intendiamo potenziare strumenti e servizi che rendano effettiva la partecipazione delle persone sorde e con ipoacusia alla vita sociale, culturale e istituzionale. Non si tratta di buone intenzioni, ma di un impegno reale per trasformare i diritti in opportunità quotidiane. È nostro dovere istituzionale agire per ridurre le disuguaglianze e sostenere le persone più fragili con azioni concrete e misurabili”.

“I progetti potranno riguardare – è detto nella nota della Regione – una o più delle seguenti finalità: promuovere la conoscenza e l’uso della Lingua dei segni italiana (Lis) e della Lingua dei segni italiana tattile (List); potenziare i servizi di interpretariato per facilitare l’accesso delle persone sorde ai servizi pubblici, inclusi quelli di emergenza; favorire l’utilizzo di tecnologie innovative per abbattere le barriere della comunicazione e dell’informazione, anche per le persone che utilizzano protesi acustiche o impianti cocleari. Possono partecipare alla co-progettazione, in forma singola o associata, i seguenti soggetti: Enti del Terzo settore iscritti al Runts, con sede legale e/o operativa in Calabria alla data di pubblicazione dell’Avviso; Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus); Cooperative sociali e loro consorzi, iscritti al Registro regionale delle cooperative sociali e con attività coerenti con l’art. 6 della L.R. n. 28/2009. Con questo Avviso l’assessorato rinnova il proprio impegno per la promozione dei diritti e delle pari opportunità, in un percorso di inclusione che vada oltre le enunciazioni di principio e si traduca in risposte efficaci e tangibili per il territorio”.

Redazione Giornale di Calabria

 

Corso di formazione degli Amici del Cuore per un gruppo dell’ente sordi

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I partecipanti hanno espresso grande soddisfazione, sottolineando come questa esperienza abbia rafforzato la loro autonomia e la capacità di aiutare gli altri, anche in situazioni critiche

In un importante passo verso l’inclusione e la sicurezza. Un gruppo di sette persone dell’Ente Nazionale Sordi della provincia di Livorno ha partecipato a un corso di formazione BLSD (Basic Life Support and Defibrillation), imparando le manovre salvavita di primo soccorso e l’uso del defibrillatore semiautomatico (DAE). Il corso, organizzato nella sede dell’Associazione Livornese Amici del Cuore in via San Simone 9 nel pomeriggio di giovedì 29 maggio con la collaborazione di Francesca, interprete LIS (Lingua dei Segni Italiana), rappresenta un esempio concreto di come tutti possano imparare che cosa fare per cercare di salvare la vita di una persona in caso di arresto cardiaco. Ogni minuto è prezioso in caso di emergenza

Sapere come agire può fare la differenza tra la vita e la morte. Estendere queste competenze anche alle persone sorde non solo le rende protagoniste attive nella comunità, ma aumenta anche il numero di potenziali soccorritori nella popolazione.

I partecipanti hanno espresso grande soddisfazione, sottolineando come questa esperienza abbia rafforzato la loro autonomia e la capacità di aiutare gli altri, anche in situazioni critiche. “Vogliamo essere parte attiva nella società, anche nel soccorso”, ha commentato uno dei corsisti. L’esperienza ha riscosso grande successo e potrebbe diventare un modello replicabile in altre città e associazioni. Promuovere l’accessibilità nella formazione per le manovre di rianimazione cardio polmonare e l’uso del defibrillatore non è solo una questione di inclusione, ma anche di responsabilità sociale. Il corso BLSD seguito dall’associazione di sordi è un chiaro esempio di come l’inclusione e la preparazione possano andare di pari passo. Ogni vita conta e garantire a tutti la possibilità di imparare a salvare è un dovere che arricchisce l’intera comunità.

Redazione Qui Livorno

 

I genitori imparano la lingua dei segni per comunicare con i figli: l’iniziativa

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Nota – Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di SalernoToday

Un’iniziativa innovativa si è conclusa con successo presso la Scuola d’Infanzia e Primaria Paritaria “Filippo Smaldone” di Salerno: il progetto “UN PONTE VERSO IL FUTURO: INSIEME PER COMUNICARE E CRESCERE”. Questo corso di Lingua dei Segni Italiana (LIS) è stato dedicato ai genitori udenti di bambini sordi, rappresentando un virtuoso esempio di come la scuola possa concretamente farsi ponte tra le esigenze familiari e il percorso di crescita dei propri alunni.

L’obiettivo primario del progetto è stato quello di abbattere le barriere comunicative all’interno del nucleo familiare, fornendo ai genitori gli strumenti necessari per interagire pienamente con i propri figli sordi. Il progetto ha adottato un approccio flessibile, adattandosi alle esigenze quotidiane delle famiglie, con l’obiettivo di sviluppare competenze comunicative pratiche focalizzandosi su situazioni reali e interazioni di tutti i giorni. La competenza della docente C. Lodato, figlia di genitori sordi, ha guidato i partecipanti in un percorso di apprendimento pratico e immersivo, forte della sua personale comprensione delle dinamiche comunicative all’interno delle famiglie sorde. La scuola “Filippo Smaldone” ha dimostrato una grande sensibilità nell’accogliere e supportare le famiglie che hanno espresso il bisogno di superare le difficoltà comunicative. Questa collaborazione sinergica evidenzia come l’istituzione scolastica possa essere un motore di inclusione e un vero partner nel percorso educativo dei bambini sordi. L’acquisizione della LIS in tenera età garantisce un pieno sviluppo cognitivo, emotivo e sociale nei bambini sordi.

Essa rappresenta la loro lingua madre, uno strumento naturale per esprimersi, comprendere il mondo e costruire la propria identità. Privare un bambino sordo di questa opportunità significa limitarne il potenziale e ostacolarne la piena integrazione. Allo stesso modo, l’apprendimento della LIS da parte dei genitori udenti riveste un’importanza cruciale, poiché permette di creare un legame affettivo e comunicativo profondo con i propri figli, di partecipare attivamente alla loro crescita e di comprendere appieno i loro bisogni e desideri. Suor Maria Bernarda, direttrice della scuola, ha espresso con calore il suo pensiero sull’iniziativa: “Questo progetto è un segno tangibile di amore e di attenzione verso i nostri bambini e le loro famiglie. Vedere genitori impegnarsi con tanta dedizione per imparare la lingua dei segni è commovente e ci ricorda che la vera inclusione passa attraverso la comunicazione. Ogni segno appreso è un passo verso un futuro di maggiore comprensione e affetto.”

Tra i genitori che hanno ricevuto con soddisfazione l’attestato di partecipazione figurano Vitale D., Suor Mukamana C., Suor Nyiransabimana M., Mautone L.,Sica S.,Iuliano L.,Sessa G.,Ingrasciotta A.,Giuffrè L.,Coscia B.,Bisogno F., Grimaldi S. e Amodeo A. L’esperienza della scuola “Filippo Smaldone” di Salerno si configura come un modello da seguire, un faro di speranza per tante famiglie e un promemoria di quanto la collaborazione tra scuola e famiglia possa generare risultati concreti e profondamente umani. C.L.

Redazione Salerno Today

 

 

Il soccorso inclusivo e le persone sorde: incontro tra Vigili del fuoco di Pordenone e ENS

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Il 24 maggio 2025, i Vigili del fuoco del comando di Pordenone hanno incontrato le persone Sorde della provincia, che afferiscono alla sezione locale di ENS (Ente Nazionale Sordi), per discutere assieme in merito alle possibili criticità comuni nella gestione del soccorso.

Da una parte i Vigili del fuoco hanno rappresentato le loro criticità nel mettersi in relazione con le persone Sorde negli scenari operativi, dall’altra le persone stesse lì hanno interrogati sui comportamenti da tenere durante un’emergenza.

Ne è nata un’interessante e partecipata discussione su questi temi che ha condotto, alla fine, a definire l’approccio con una persona Sorda e i segni della LiS (Lingua dei Segni Italiana) più idonei da utilizzare nei possibili scenari di soccorso.

L’incontro è stato accompagnato per tutto il tempo da un’interprete LIS

L’iniziativa, segue altre organizzate dal comando di Pordenone, sempre particolarmente attento su queste tematiche

Redazione Vigilfuoco it