Invalidità, stop all’assegno per il disabile non grave che ha un lavoretto

L'Inps, con un messaggio del 14 ottobre, cita due sentenze della Cassazione. Ma per cinquant'anni il sussidio è stato erogato anche in presenza di piccole attività lavorative. "Un atto molto grave e ingiusto che colpisce i più fragili e per di più in pandemia", si allarma la Cgil. "Le attività di queste persone sono terapeutiche"

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ROMA – Disabili condannati a restare a casa, senza lavoro e poveri. Se vogliono essere attivi e lavorare, devono rinunciare all’assegno di invalidità.

di Valentina Conte

Se invece vogliono tenersi l’assegno da 287 euro al mese per 13 mesi, allora non devono lavorare. Dove per lavorare si intende un lavoretto al massimo da 400 euro al mese per non superare il tetto di reddito annuale, compatibile con l’assegno di invalidità, da 4.391 euro all’anno. Un cortocircuito che rischia di lasciare ai margini migliaia di persone affette da disabilità non grave dal 74% al 99%, impedendo loro di integrarsi socialmente a meno di rinunciare al sostegno a cui hanno diritto.

La questione è riemersa qualche giorno fa, quando l’Inps ha pubblicato un messaggio – il numero 3495 del 14 ottobre a firma del direttore generale Gabriella De Michele – in cui si dice che dal 14 ottobre 2021 in poi “l’assegno mensile di assistenza di cui all’articolo 13 della legge n. 118/1971, sarà pertanto liquidato, fermi restando tutti i requisiti previsti dalla legge, solo nel caso in cui risulti l’inattività lavorativa del soggetto beneficiario”. Quindi stop all’assegno se c’è il lavoretto.

Il messaggio cita due sentenze della Cassazione – la numero 17388 del 2018 e la numero 18926 del 2019 – che hanno dato ragione all’avvocatura dell’Inps ricorrente contro sentenze di appello di invalidi privati dell’assegno: “Il mancato svolgimento di attività lavorativa è un elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale”. In altre parole: hai diritto all’assegno se non lavori, altrimenti te lo tolgo.

Ma come sono andate le cose negli ultimi cinquant’anni? La legge 118 del 1971 – quella che ha avviato il percorso, ancora incompiuto, di inclusione sociale degli invalidi in Italia – all’articolo 13 stabiliva che l’assegno di invalidità fosse dovuto solo in caso di “incollocazione” del beneficiario, ovvero l’iscrizione nelle liste speciali di collocamento, “per il tempo in cui tale condizione sussiste”. La legge del 2007 ha riscritto l’articolo 13 sostituendo il requisito dell’incollocazione con quello di “inoccupazione”. Non si deve dunque lavorare.

Eppure la stessa Inps – in due messaggi del 2008, numero 3043 e numero 5783 – dice invece che “l’esiguità del reddito impedisce di ritenere che vi sia attività lavorativa rilevante”. Ovvero: se il lavoro non è stabile e non viene superata la soglia di reddito minimo personale pari ora a 4.391 euro all’anno, allora lavoretto e assegno possono convivere. Il messaggio Inps del 14 ottobre scorso fa di nuovo retromarcia, cancellando cinquant’anni di logica tolleranza. A questo punto solo un nuovo intervento legislativo potrebbe mettere le cose a posto.

“Una novità che rischia di essere dirompente tra le migliaia di famiglie che si trovano ad affrontare quotidianamente problemi di salute e di invalidità”, dicono i responsabili Cgil per le politiche della previdenza e della disabilità Ezio Cigna e Nina Daita. “Si tratta di una cosa molto grave, poiché vengono colpiti i più fragili, coloro che hanno già pagato duramente le conseguenze dell’emergenza sanitaria. Le attività di queste persone con disabilità sono attività terapeutiche o formative e con piccoli compensi, che difficilmente superano il tetto previsto. Togliere l’assegno di invalidità alle famiglie è un atto ingiusto”.

 

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