La mia proposta, che può anche essere intesa come un vero e proprio appello: perché il Terzo Settore non considera tra le proprie prospettive, e tra le proprie responsabilità, anche quella di concorrere alla provvista del personale politico in una democrazia che, per essere davvero tale, ha l’ineludibile ma ormai inappagato bisogno che quel personale sia munito dell’addestramento al bene comune di cui esso oggi possiede il monopolio o quasi?

di Giuliano Amato

Alla fine dello scorso anno, il vice presidente della Corte Costituzionale ed ex premier, Giuliano Amato aveva lanciato il tema in un saggio sulla rivista della Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione “Auxilum” , in breve, lo aveva riproposto su 7 il settimanale del Corriere della sera in un dialogo con Dario Di Vico. E poi la discussione, sul ruolo del Terzo settore in politica, era andata in onda in un webinar promosso da Vita e Corriere della sera con Elena Ostanel, Consigliera regionale del movimento civico Il Veneto che vogliamo, Angelo Moretti, presidente della Rete di Economia civile “Consorzio Sale della Terra”, Luigi Bobba, presidente di Terzjus, Antonio Gaudioso, Segretario Generale di Cittadinanzattiva e Claudia Fiaschi portavoce del Forum del Terzo settore (lo trovate qui).

Ora il presidente Amato lo rilancia con l’editoriale del numero di maggio della nostra rivista che qui vi riproponiamo.

È ormai da molto tempo che nella diagnosi dei mali della nostra società, ed anche delle nostre istituzioni, ha un posto preminente l’indebolimento delle formazioni intermedie su cui più ci eravamo retti in precedenza, dalla famiglia nei rapporti privati, ai partiti e ai sindacati in quelli collettivi e pubblici. Anni fa era stata l’individualizzazione delle nostre vite indotta dall’urbanesimo, dal consumismo, dalla crescita del lavoro post-taylorista a segnalare la necessità di porre rimedio alla sclerosi dei tradizionali luoghi di aggregazione. Pena – si diceva – l’impossibilità di comporre le tante domande espresse da una società di soli individui, l’impossibilità, addirittura, di mantenere viva un’etica comune che quella società tenga insieme nelle fondamenta. Poi, in anni più recenti, gli anni delle grandi delusioni di massa dovute alla globalizzazione e alla crisi economica – le diseguaglianze accresciute, le perdite di reddito o addirittura del lavoro, l’ostilità conseguente verso le elite che hanno permesso tutto questo e verso il mondo esterno fonte di tutti i mali – ci siamo accorti che un efficace fattore aggregante c’era ed era –ahinoi- il populismo, che soffia su quelle delusioni e unisce all’insegna di sentimenti contro; sino al punto di portare –come ha preso ad accadere in alcuni paesi – a derive plebiscitarie, che penetrano nelle stesse cornici democratiche e le deformano. Di qui, ancora di più, l’attenzione alle formazioni intermedie, alla sussidiarietà, alla cittadinanza attiva come principi e moduli organizzativi essenziali per prevenire quelle derive e mantenere vivi assetti democratici che tali siano dalle radici della società ai vertici delle istituzioni rappresentative.

Si può solo convenire con queste diagnosi e queste terapie; che tuttavia lasciano scoperti proprio quei vertici, nei quali, nel frattempo, il male, lo stesso male della sclerosi delle formazioni intermedie, ha indotto patologie, che hanno bisogno esse stesse di una cura specifica. Nel disegno del Costituente, il senso di tali formazioni era anche quello di educarci a comporre il nostro interesse individuale con quelli delle collettività, via via più ampie, delle quali ci saremmo trovati a far parte, la famiglia, la scuola, l’associazione, sino alla stessa collettività statale. E sarebbe una tale, progressiva educazione ciò che avremmo portato con noi una volta arrivati alle istituzioni, appunto, dello Stato. Ebbene, è proprio questo ciò che alle istituzioni è venuto a mancare al nostro tempo, perché manca a chi è immesso in parlamento avendo alle spalle la sua sola vita individuale, quale che essa sia, e manca anche ai “competenti”, che sanno di virologia, di economia od altro, ma nulla sanno delle interazioni attraverso le quali si mette a fuoco il bene comune e si forma attorno ad esso il necessario consenso.

È, a suo modo, anch’essa una competenza, che si forma però attraverso un addestramento fatto di esperienza, di occasioni ripetute e costanti di confronto umano, di rapporti di fiducia che si formano con lo stare insieme e quindi con l’abitudine a tener conto gli uni degli altri. Guardiamoci allora intorno: dove è rimasto questo addestramento, se non in alcune (non tutte) associazioni sindacali e, soprattutto, nelle molteplici entità associative del terzo settore?

Di qui la proposta, che può anche essere intesa come un vero e proprio appello: perché il Terzo Settore non considera tra le proprie prospettive, e tra le proprie responsabilità, anche quella di concorrere alla provvista del personale politico in una democrazia che, per essere davvero tale, ha l’ineludibile ma ormai inappagato bisogno che quel personale sia munito dell’addestramento di cui esso oggi possiede il monopolio o quasi?

Conosco la tradizionale obiezione e cioè il rischio di essere strumentalizzati, di diventare cinghia di trasmissione di questo o quel partito. Ma era un’obiezione forte quando forti erano i partiti, lo è molto meno con i partiti di oggi, che rischiano loro di essere cinghie di trasmissione degli interessi di cui cercano i consensi.

Già, perché al punto a cui siamo è questo il problema: mancando di collegamenti solidi con la società, la politica ne cerca il consenso attraverso i comunicatori, i quali le suggeriscono i messaggi che più facilmente riescono ad ottenerlo. Ma questo non porta al bene comune, perché non porta né a discutere dei modi di conformarlo, nè dei bilanciamenti sociali che ne conseguono. Chi quei collegamenti li ha, chi mantiene vivo l’impegno solidale, la responsabilità verso l’altro e quindi la fiducia che l’altro può nutrire nei suoi confronti ha esattamente ciò di cui le nostre istituzioni rappresentative hanno più bisogno per assolvere alle loro funzioni così come si pensava quando furono concepite.

Mettere a disposizione simili risorse, da parte di coloro che le posseggono, diviene dunque –come accennavo- una responsabilità. I modi poi per esercitarla possono essere diversi, specie in un mondo politico fatto di partiti, movimenti, liste civiche e possibili entità collegate elettoralmente agli uni o agli altri. Già sarebbe importante che si cominciasse a discuterne, che la si vedesse come una possibilità, non certo per tutti, ma per coloro che vorranno, sperabilmente in numero sufficiente da rappresentare una svolta; ed anche una seminagione che poi potrà estendere i suoi frutti.

A questo sono per ora finalizzate le considerazioni qui svolte

 

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