Disabili, tra barriere architettoniche e un welfare lacunoso

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In Italia i disabili sono circa 4 milioni, ma secondo il rapporto delle Nazioni Unite datato 2017, le barriere architettoniche sono ancora tante. Troppe. Al punto che l’Onu ha stabilito che l’Italia non è un Paese a misura di disabile. Ad essersene accorti non sono solo i diretti interessati e i loro famigliari, ma anche caregiver e operatori socio sanitari a domicilio.

Mirella, Oss: L’Italia non è un Paese per disabili

Non tutti sanno cosa voglia dire vivere gran parte della propria giornata su una carrozzina. Pochi riescono ad immaginare veramente cosa provi una persona che ha improvvisamente perso la propria autonomia per ritrovarsi seduta su una sedia a quattro ruote. Completamente dipendente da un’altra persona.

È ancora più raro che qualcuno possa comprendere quanto spirito di adattamento e improvvisazione debba avere un Oss che lavora tutti i giorni con utenti carrozzati a domicilio. Soprattutto in paesi dove le barriere architettoniche sono all’ordine del giorno.

Il grosso problema dei corsi per Operatori socio sanitari – denuncia Mirella, Oss a domicilio da circa dieci anni – è che ti preparano per lavorare in strutture sanitarie. Non ti fanno fare tirocinio per esempio nelle famiglie con disabili o anziani, dove si possono trovare vari livelli di difficoltà e problematiche complicate da risolvere. È troppo facile far credere agli studenti che una volta operatori socio sanitari lavoreranno sicuramente in ospedale o in una residenza sanitaria, dove ci saranno solo lunghi corridoi da percorrere senza buche e senza marciapiedi. È pura utopia.

In effetti, la grossa crisi del mondo del lavoro dell’ultimo decennio ha portato molti oss a spendere il loro diploma a singhiozzi tra le Rsa e i privati. Difficili le assunzioni nel pubblico, dove si passa solo per concorso e negli ospedali privati che ormai fanno sempre più affidamento sulle cooperative. L’invecchiamento della popolazione ha inoltre innalzato, da parte delle famiglie, l’offerta di lavoro a domicilio.

Comprensibile dunque la critica di Mirella che, dopo anni di lavoro a contatto con diverse tipologie di utenti disabili, mette in dubbio la preparazione complessiva degli aspiranti oss.

Da circa tre anni lavoro per una famiglia – racconta – dove c’è un’anziana donna, Elena, non completamente autosufficiente. Ogni tanto si alza, la faccio camminare, ma vista una grave patologia invalidante vive praticamente tra il letto e la carrozzina. I nostri problemi iniziano la mattina, quando devo farle l’igiene, in una casa piccolissima che le è stata assegnata più di trent’anni fa dall’istituto case popolari e che adesso non è più adatta per una persona disabile. Ma sembra che la cosa interessi poco a chi di competenza e così io sono costretta a fare i salti mortali per farla entrare in bagno con la carrozzina e cercare di accompagnarla quanto più vicina al water.

Potrei dirle di urinare nel pannolone? Potrei, ma voglio preservare quel poco di autonomia che ancora possiede. Stessa cosa per il bidet o per la doccia, che non possiamo modificare altrimenti l’istituto ci addebita una mora. Altro che grossi bagni con barelle come ti abituano nelle Rsa o maniglioni a cui aggrapparsi. Elena ha solo me e un vecchio pomello da afferrare. So che è pericoloso, ma lei ci tiene ancora a farsi la doccia e lavarsi da sola almeno una volta a settimana, così ho riadattato diversi tappetini antiscivolo, uno sgabello idoneo alla sua altezza e un guanto con cui possa lavarsi più facilmente.

Questa però è solo una parte del problema. L’esperienza di Mirella l’ha portata a confrontarsi con i rischi della strada.

Andare in giro con una persona sulla sedia a rotelle ti fa vedere il mondo da un’altra prospettiva – aggiunge la donna. – È incredibile come sia difficile muoversi in città dove i parcheggi per i disabili siano sempre troppo pochi. Elena ci scherza sempre e dice che ormai sono più le persone portatrici di handicap che non. Però c’è veramente poco da ridere. Come quando cammini sul marciapiede che s’interrompe improvvisamente e perlopiù senza rampe. Allora devi trainare la carrozzina al contrario evitando magari buche piene d’acqua o tombini che creano dislivelli pericolosi per la stabilità delle ruote. Per non parlare poi di alcune cliniche o laboratori di analisi dove non esiste accesso per le sedie a rotelle o i passeggini. Che a quel punto devi per forza chiedere aiuto per fare uno o due gradini, mentre ti chiedi se sia normale tutto questo.

Normale non è, soprattutto se si pensa che tutte le strutture, ed in particolare quelle che erogano servizi sanitari, dovrebbero essere accessibili ad ogni tipo di utenza.

Lavorare come oss – continua Mirella – vuol dire anche promuovere e sostenere la vita di relazione dei nostri assistiti. Aiutarli a conservare i rapporti di coppia o di gruppo che avevano già in essere prima dell’invalidità. A stare con gli altri. A volte, però, mi rendo conto che è davvero dura. Dirò una cosa scontata, ma superare le barriere architettoniche vuol dire oltrepassare anche ostacoli culturali. Da quando Elena è finita purtroppo sulla sedia a rotelle, non riesco più a convincerla ad andare al circolo per anziani dove solitamente si ritrovava con le amiche. Questo perché per molte persone lei ormai è diversa ed Elena se n’è accorta, così non vuole più andarci. Credo si senta a disagio.

Essere un oss nel mondo reale, per Mirella, vuol dire tutto questo. Scontrarsi con la malattia, ma soprattutto con l’ambiente esterno. Inventarsi continuamente un nuovo modo di lavorare, tenendo conto degli studi fatti, dell’esperienza acquisita e della persona che si sta accompagnando. Sapendo che l’unico responsabile del suo operato è solo lei e nessun altro.

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