Così il cervello ci fa capire se tocca a noi parlare

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Durante una conversazione lo scambio di informazioni si articola con elaborazioni nervose dai tempi velocissimi, secondo regole valide in tutte le lingue

di Danilo di Diodoro

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Il complesso sistema di scambio che si mette in atto durante una conversazione tra due o più persone è un’abilità straordinaria degli esseri umani che passa completamente inosservata. Senza che nessuno se ne renda conto, le interazioni verbali si susseguono veloci e precise, rispettando regole non scritte da nessuna parte, ma valide in tutte le culture e per le diverse lingue parlate sulla Terra. A questo incredibile fenomeno ha dedicato un articolo, pubblicato sulla rivista Trends in Cognitive Sciences, il professor Stephen Levinson, direttore del Language and Cognition Department del Max Planck Institute for Psycholinguistics di Nijmegen in Olanda. La velocità con la quale gli esseri umani mettono in atto, con grande naturalezza, gli scambi della conversazione è da cardiopalmo. Sebbene possa esistere una certa variabilità a seconda del contesto di ogni conversazione, quando parliamo, la maggioranza degli interventi verbali dura attorno ai due secondi. Ogni turno è seguito da una pausa di non più di 200 millisecondi. È uno spazio talmente breve che la sua durata può essere paragonabile solo al tempo di risposta di un centometrista al momento in cui deve uscire dai blocchi di partenza dopo il via. Con la differenza che nel caso della conversazione questa abilità ce l’hanno tutti, e non soltanto gli atleti.

La risposta si prepara mentre l’altro parla

In una conversazione, l’intervento successivo arriva puntuale allo scadere della brevissima pausa, anche perché, sempre senza rendersene conto, le persone iniziano a costruire mentalmente la risposta mentre l’altro sta ancora parlando. Siamo talmente abituati a questa capacità dei nostri cervelli che facciamo fatica a percepirne tutta la meraviglia. «La produzione del parlato implica che nell’uso interattivo del linguaggio la comprensione di ciò che l’altro dice e la produzione di ciò che si vuol dire si sovrappongono. Una persona deve iniziare a pianificare ciò che vuole dire già mentre sta ancora ascoltando, e deve saper predire cosa conterrà la parte del discorso dell’altro che deve ancora arrivare» spiega il professor Levinson. «Alcuni aspetti a proposito di ciascuna di queste fasi sono recentemente diventate disponibili, grazie all’elettroencefalografia (Eeg), che è in grado di fornire informazioni con una buona risoluzione temporale sui processi psichici coinvolti». Secondo i risultati di una ricerca pubblicata sul Journal of Phonetics, realizzata da Sara Bogels e Francisco Torreira, che lavorano nello stesso dipartimento del professor Levinson, l’attività di preparazione del proprio turno di parola avviene sì già mentre l’altro sta ancora parlando, ma si avvia davvero solo nel momento in cui ci si accorge che il suo turno si sta concludendo.

L’importanza delle pause nel dialogo

Questo accade attraverso la rilevazione di minuti segnali provenienti dal contenuto del discorso, dai gesti dell’altro, ma anche dall’intonazione della sua voce, che manifesta l’intenzione della persona di concludere il proprio intervento. Come riusciamo a preparare quello che dobbiamo dire nel brevissimo tempo che resta prima che l’altro smetta di parlare resta abbastanza misterioso, considerato anche che gli studiosi sanno da tempo che, per avviare il contenuto di una conversazione, il cervello necessita di alcune centinaia di millisecondi, in media circa 600. E non è ancora finita. Siamo talmente abili che, al bisogno, possiamo decidere invece di manipolare a piacimento la durata della pausa tra un turno di conversazione e l’altro, così da contribuire a dare sfumature ai significati che si vogliono esprimere. Questo fenomeno è molto evidente, ad esempio, a teatro o al cinema: per dare naturalezza agli scambi verbali, gli attori tendono a ridurre al minimo, fino a farla quasi scomparire, la pausa tra la battuta di uno e quella dell’altro; ma se intendono sottolineare un’emozione, allora allungano la pausa, per esprimere dubbio, ripensamenti, o vari sentimenti, come uno stato di commozione. Nelle recite di attori non professionisti, una delle caratteristiche più evidenti è proprio il distacco forzato e meccanico dei turni di conversazione, che dà all’ascoltatore una sensazione di artificiosità.

Ci sono «no» e «no» (che sono dei «nì»)

Invece, nella vita reale, una pausa volutamente lunga in uno scambio verbale può assumere molti significati, dare un contesto particolare a quello che sta per essere detto. Se un uomo chiede a una donna di uscire a cena, lei può rispondere un no preceduto da una lunga pausa, il che vuol dire no, ma forse sì, oppure no stasera, ma forse domani. In ogni caso si tratta di una risposta diversa dal terribile no secco che arriva con la sola pausa minima di 200 millisecondi, o talvolta anche più velocemente. Il professor Levinson sottolinea infine come sia interessante rilevare che mentre esistono tante lingue e tanti dialetti diversi, l’abilità nel seguire i turni di conversazione sembra essersi sviluppata negli esseri umani in maniera uguale in qualunque luogo e qualunque sia la loro cultura di appartenenza. Dice in proposito: «L’ovvia deduzione è che la complessità dei linguaggi individuali è largamente dipendente da fattori di tipo culturale, mentre è come se avessimo una base innata per l’imitazione vocale e il sistema dei turni nella conversazione».

Linguaggio dei segni: stesse regole

Anche per chi utilizza il linguaggio dei segni, vale il principio della non sovrapposizione degli interventi e delle strettissime pause nella conversazione. È quanto emerge da una ricerca, realizzata dal gruppo del professor Levinson, che ha videoregistrato in vari setting (casa, luoghi di ritrovo, ristoranti) persone che utilizzavano questo linguaggio, al fine di cogliere il coordinamento temporale degli interventi. L’analisi ha mostrato come anche in questo tipo di linguaggio sia fondamentale attenersi al principio di esprimersi uno alla volta e come la durata delle pause e il numero delle sovrapposizioni degli interventi siano simili a quelli della comunicazione verbale. «Questo significa che il sistema dei turni di conversazione è un’infrastruttura cognitiva condivisa alla base di tutti i moderni linguaggi umani, sia parlati, sia espressi attraverso i segni» è la conclusione degli autori della ricerca.

http://www.corriere.it/

 

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