Alle porte dei Giochi Paralimpici di Tokyo 2020 che si terranno dal 24 Agosto al 5 Settembre, vi riproponiamo la storia degli atleti paralimpici che in Kenya lottano (con pochi mezzi e tanta grinta) per non soccombere. A Nairobi i disabili sono relegati ai margini della vita sociale e rifiutati dal mondo del lavoro. Ma la qualificazione a un’Olimpiade può cambiare la vita

di Sergio Ramazzotti/Parallelozero

Alle Olimpiadi l’importante è partecipare, lo sanno tutti. Nessuno però sembra saperlo meglio degli atleti paralimpici del Kenya, per i quali il motto – ancorché informale: non sta scritto da nessuna parte – sembra essere: più partecipi, meglio è. La ragione è molto semplice e altrettanto valida: i soldi.

Prima di raccontare la loro storia, una premessa: gli atleti del Kenya sanno farsi rispettare. Per dare un’idea, ai Giochi paralimpici di Londra 2012 hanno vinto sei medaglie, tutte nell’atletica, fra cui due ori conquistati da Samuel Kimani e Abraham Tarbei nei 1500 metri, rispettivamente per le categorie non vedenti e paraplegici. Nel marzo 2016, al meeting internazionale di Tunisi valido per la qualificazione ai Giochi paralimpici di Rio 2016, le medaglie del Kenya sono state 11, di cui quattro ori: il Paese si è classificato quinto su trenta nazioni africane.

«Senti che schifo»

I fattori che fanno la forza dei keniani sono, per paradosso, quelli che all’apparenza dovrebbero indebolirli: la cronica penuria di fondi e il rifiuto della società. Il primo – la scarsità di fondi – me lo ha spiegato James Mangerere, 29 anni (oro nel lancio del giavellotto al meeting di Tunisi), un giorno che sono andato ad assistere all’allenamento suo e dei suoi compagni di squadra allo stadio Nyayo di Nairobi, con la seguente mirabile sintesi: «Abbiamo un equipaggiamento che fa schifo». Mangerere, che ha perso l’uso degli arti inferiori a causa della poliomielite, sedeva sulla sedia a rotelle da corsa sulla quale aveva appena terminato di allenarsi, e mi ha invitato a sollevarla: «Senti quanto pesa? – ha detto –. Almeno il doppio di una veramente seria. Ma questo è quanto il nostro comitato sportivo può permettersi. Agli atleti dei Paesi ricchi l’equipaggiamento viene costruito su misura della loro disabilità. Nel nostro caso è il contrario: siamo noi che dobbiamo adattare la nostra disabilità all’equipaggiamento». Cosa che, nella fattispecie, Mangerere aveva fatto utilizzando una gran quantità di gommapiuma e nastro adesivo per imbottire il telaio dove necessario. «Tuttavia non è per forza uno svantaggio, anzi», puntualizzava Rahel Akoth, 32, anche lei paraplegica e anche lei reduce dall’allenamento bisettimanale. «Più fatichi, più sviluppi resistenza».

Nairobi, Kenia. Stadio nazionale di Nyayo. L’atleta della squadra nazionale paralimpica Jane Kerubo e l’allenatore Caroline Mabel (in bianco) durante l’allenamento del lancio del giavellotto.

Rabbia spaventosa

È, come la chiama lei, la teoria Rocky Balboa. Che comporta non soltanto il dover spingere a forza di braccia lungo la pista d’atletica del Nyayo un pesante arnese di ferro a tre ruote per due volte la settimana, ma anche usarlo per il resto del tempo come mezzo di trasporto, destreggiandosi nel traffico mortale di Nairobi, «per risparmiare il biglietto dell’autobus». Per raggiungere lo stadio dal quartiere dove abita, Rahel impiega quasi tre ore. «Il punto è che per fare l’atleta professionista ci vogliono un sacco di soldi: dovresti poterti pagare il trasporto, l’abbigliamento tecnico, una buona attrezzatura, la dieta giusta – ha detto Mangerere –. E per avere i soldi ci vuole un posto di lavoro fisso, che qui non ha nessuno».

Ecco l’altro problema, e al tempo stesso l’altro fattore che rende competitivi i keniani. «Non abbiamo un lavoro per via dello stigma sociale: nessuno assume un disabile. Passi tutto il tuo tempo libero a fare colloqui, ma dopo un po’ ci rinunci, perché ti rendi conto che un posto di lavoro per te non c’è e non ci sarà mai. Però sentirti escluso dalla società ti costringe a tirare fuori una forza che non credevi di avere. Senti montare dentro di te una rabbia spaventosa, e se sei bravo a imbrigliarla e a incanalarla nello sport, la rabbia diventa energia pura. Conosco un sacco di gente incazzata a morte. Se solo avessero i soldi per venire ad allenarsi con noi avremmo una squadra imbattibile».

Rimborsi preziosi

Da qualunque prospettiva si analizzi la questione, il nodo gordiano nel quale si incappa è sempre quello, il denaro. Ed è lo stesso, come si diceva all’inizio, che sembra aver ispirato la parafrasi keniana del motto olimpico di de Coubertin, e che sta alla base dell’incredibile versatilità di atleti come Mangerere, che ho visto allenarsi con la bicicletta, ma che negli altri giorni si dedica con pari impegno al basket, alla pallavolo e al tennis in sedia a rotelle, al nuoto e al sollevamento pesi, per poi andare a Tunisi e vincere l’oro nel giavellotto.

«Per noi l’unico modo di guadagnare è partecipare ai campionati internazionali», mi ha detto Henry Odiyo, 38 anni, paraplegico campione di basket (ma anche di tennis, di atletica e di svariate altre specialità), che col suo mestiere di grafico pubblicitario freelance non riesce mai a sbarcare il lunario, vuoi perché non trova lavoro, vuoi perché quando lo trova fatica a farsi pagare. «È solo così che si riesce a mettere da parte i soldi per vivere: quando viaggi, il ministero dello Sport ti garantisce un rimborso giornaliero, e se sei bravo a risparmiare sulle spese durante la trasferta, al tuo ritorno ti ritrovi in tasca il gruzzolo che ti permette di arrivare alla fine del mese. È questa la ragione per cui cerchiamo di prepararci nel maggior numero di discipline possibile: “più discipline” uguale “più chance” di essere selezionato per un campionato. Più campionati, più soldi». Ovvero, per ripetere quanto già scritto: più partecipi, meglio è.

Giochi sporchi?

Poi, giusto per complicare le cose, non è detto che per quanto duramente uno si sia allenato il sistema funzioni sempre. Negli ultimi anni il prestigio del comitato paralimpico nazionale del Kenya è stato offuscato da una gestione, per usare un eufemismo, poco trasparente, che dopo lunghe lotte interne ha portato, lo scorso febbraio, alla rimozione della sua presidente Agnes Oluoch, accusata di aver applicato – proprio per la scelta degli atleti da inviare ai campionati – un criterio di selezione di dubbia logica. Per fare un esempio, ai Giochi del Commonwealth di Glasgow 2014 il Kenya ha inviato soltanto venti atleti, anziché i 32 ai quali aveva diritto, ufficialmente perché il comitato non aveva prodotto la documentazione necessaria per i restanti 12. Secondo le voci che circolano fra gli atleti, il vero motivo è che bisognava lasciare il posto ai familiari di alcuni dirigenti del comitato, che in questo modo si sono fatti una vacanza gratis in Scozia. In attesa che la faccenda venga chiarita (avverrà in tribunale), il comitato paralimpico internazionale ha sospeso il Kenya in via cautelativa.

Quando ne ho parlato con James Mangerere, lui ha scrollato le spalle. «Le beghe di potere mi importano fino a un certo punto – ha detto –. Quel che mi importa davvero è poter continuare a fare sport a questo livello, perché mi dà qualcosa di unico: la fiducia in me stesso. E quella, quando vivi in una società che ti rifiuta, è molto più preziosa di una vacanza in Scozia».

Nairobi, Kenia. Stadio nazionale di Nyayo. Squadre paralimpiche nazionali durante l’allenamento in carrozzina.
Le carrozzelle-tricicli usate per allenarsi nella corsa sono le stesse che gli atleti utilizzano per muoversi per le caotiche strade di Nairobi

(Sergio Ramazzotti/Parallelozero)

 

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