Omaggio alla 60ma GMS-Giornata Mondiale del Sordo Roma – 27-28-29 Settembre 2018 – Sordità a una dimensione

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Quando, per un motivo o per un altro, per esempio per ragioni di studio, di conoscenza o di semplice curiosità intellettuale, ci si avvicina con genuino interesse, scevri da ogni banale pregiudizio, al mondo della sordità profonda, che ricordiamo, è riconosciuta dai maggiori organismi sanitari come una delle disabilità sensoriali più gravi e invalidanti in assoluto, seconda solo alla privazione della vista, si resta colpiti dal numero di differenti aspetti in cui essa si presenta.
Questo accade perché la sordità in sé e sé non è una malattia, al limite è una conseguenza di quella.

Più precisamente la sordità è una condizione, uno status, che si adatta come un vestito, di un preciso colore e dal taglio richiesto, alla persona che vi è costretta.

Ne consegue che ne derivano una gran varietà di abiti, di diversi colori, di stili differenti, e infinite sfumature di toni tra un colore e l’altro, tra un taglio e l’altro, esattamente quante sono le singole persone costrette a convivere in questa particolare dimensione di haute couture.
Parliamo di costrizione, di dimora obbligata in una certa dimensione, di evento non preordinato: infatti, nessuno sceglie di divenire sordo, sia chiaro.

La diceria dell’untore che la persona sorda, potendo scegliere, non abiurerebbe mai al suo stato, preferendo restare con fierezza membro della comunità sorda a tutti gli effetti, anziché entrare nelle schiere degli udenti, è una vera e propria bufala, quella che si dice una leggenda metropolitana, messa in giro ad arte da pretese associazioni no profit pro-sordi, definite tali più nelle intenzioni che per altro, e per puro opportunismo politico.

I sordi vivono la loro condizione normalmente, con semplicità, qualcuno se ne fa un problema o un’ossessione, qualcun altro meno, i più tendono sicuramente a rapportarsi prioritariamente, e logicamente, con interlocutori che condividono la stessa condizione, certi di essere compresi.
Non solo; con pari efficacia, moltissimi non limitano il proprio orizzonte solo alle persone sorde, ci mancherebbe, si uniscono e si confondono tranquillamente con gli udenti nel vivere comune, e con assoluta certezza sicuramente tutti i sordi non si percepiscono come una minoranza etnica, non si vedono affatto fuori dal consorzio umano di appartenenza, anzi, vorrebbero solo partecipare di più e meglio, se solo non fosse ostacolata la loro comunicazione
Si differenziano dai normodotati, infatti, esclusivamente per il diverso modo di comunicare.

Affermare il contrario, sarebbe come dichiarare che le persone prive di un arto, preferirebbero tenersi sempre e in ogni caso il loro invalidante moncherino anziché utilizzare un valido ausilio meccanico, per esempio sostituirlo con un esemplare di alta tecnologia di protesi bionica.
Addirittura, se in virtù di qualche miracolo, riavessero la possibilità di gestire il proprio organo restituito “in vivo”, neanche allora accetterebbe il dono divino, in virtù di una presunta fedeltà di appartenenza a una comunità “monoarto” e a comodità e abitudine d’uso: crederlo è semplicemente assurdo, se non in malafede.

Nessun sordo gode o si vanta della propria sordità: semmai, rivendica con orgoglio, fierezza ed estrema dignità il rispetto per il proprio ruolo, richiede con semplicità e determinazione il riconoscimento dei suoi inviolabili diritti di persona e di cittadino, in definitiva reclama esclusivamente la banale sacralità del proprio esistere, ostacolato dalle barriere fisiche-sociali opposte alla comunicazione, poiché l’habitat “normale” esclude canali che non siano prioritariamente se non esclusivamente audio verbali.
Tutto il resto è una conseguenza: le persone sorde vivono a una dimensione.
La loro dimensione è visiva, non acustica: la maggioranza dominante li vuole assurdamente a forza costringere in una dimensione che non è la loro, incurante delle legittime proteste.
La dimensione della persona sorda è l’assenza del suono, la loro condizione unica è non sentire.
Tutti i sordi sono accomunati da una verità lapalissiana: essi non sentono. E basta.
Tutto il resto è relativo.
Perciò non corrisponde mai al vero che le persone sorde sono divise tra di loro: non potrebbero.
Vivono, e solo loro, in una dimensione comune, inarrivabile dagli udenti, e perciò a questi mai perfettamente comprensibile in toto.
Come si dice, bisogna essere sordi per capire, bisogna non sentire per sapere cosa essa significa davvero.
L’udente può immaginarlo, certo, provando a mettersi in quei panni, ma non è la stessa cosa, non può esserlo di necessità.
La dimensione della sordità, la condizione di sordo, determina esperienze di vita spesso dolorose, incide nell’animo e nel cammino biografico per unicità, diversità, sofferenza, disagio, impegno, riabilitazione lunga, incerta, frustante, umiliazioni, delusioni, ridimensionamento dei propri sogni, ambizioni, desideri.
La dimensione della sordità è aliena agli udenti.
Per comprendere meglio, è noto che esistono compagnie teatrali dei sordi, festival del cinema dei sordi, eventi anche musicali particolari per sordi.

Normalmente con l’uso della lingua dei segni, ma non solo.
Questo perché appunto l’esperienza condivisa della sordità è veicolata tramite l’espressione figurativa, per immagini e per segni, si caratterizza così il mondo interiore, il messaggio artistico dei sordi in una dimensione che la maggior parte degli udenti non può cogliere.
L’iter nella dimensione non sonora comporta quindi tutto questo e altro ancora; sono aspetti dimensionali che uniscono, che spingono i sordi a fare gruppo, li inducono alla solidarietà, condivisione, comprensione e tolleranza tra loro, i sordi condividono esperienze che accomunano, che affratellano: non a caso si parla di comunità sorda, di fratellanza sorda.

Per questo i sordi non sono divisi, non possono esserlo: sono come un solo uomo, si uniscono e fanno fronte comune, si schierano a legione, spesso pronti anche a scatenare l’inferno contro qualsiasi cosa che a forza li vuole esclusi dal vivere civile.
I sordi non sono divisi, sono semplicemente diversi tra loro: esattamente come lo sono tutti gli esseri umani, sordi o no.
Ciascuno è a suo modo, come deve essere: prima di essere sordi, i sordi sono persone.
A dividerli, a metterli l’uno contro gli altri armati, semmai ci pensano gli udenti, che fanno appunto leva sulla loro diversità, sull’avere esigenze differenti nonostante la comune dimensione.

I sordi non sono né migliori né peggiori delle altre persone, ognuno di loro è il frutto della propria storia, origine, famiglia, educazione, stato sociale, e in particolare ognuno ha seguito iter riabilitativi diversi.
Possiamo perciò trovarci facilmente di fronte a persone in cui nulla, nell’aspetto esteriore, denota la privazione uditiva, il soggetto si esprime in maniera normale, fluida, anche in forma elegante, forbita, esauriente, talora appare addirittura logorroico, il che appare stupefacente, incompatibile con una patologia talmente grave da influire pesantemente, com’è noto, sull’acquisizione della lingua parlata.
Unico indizio di una qualche difficoltà intrinseca nella comunicazione, e spesso neanche rilevata da un distratto osservatore, il sordo in questione ha letteralmente fisso lo sguardo sulle labbra dell’interlocutore, non rivolge mai le spalle, nemmeno per sbaglio, a colui con cui discorre, talora tende a condurre e monopolizzare lui stesso la conversazione, scegliendo temi in cui è particolarmente ferrato, prevenendo le domande rivoltegli, riduce quindi la conversazione a un monologo, appare in difficoltà nelle discussioni a più voci, sembra annuire anche quando è del tutto evidente che non ha ben compreso l’asserzione.

In genere, è un portatore di protesi endoauricolari a scomparsa, per lo più di tipo digitale, programmate in automatico in modo da filtrare e purificare il suono in entrata, amplificando e rilevando in particolare le frequenze interessate dalla voce di conversazione, escludendo gli altri suoni di fondo, svianti della comprensione della comunicazione.
Oppure, il sordo in esame non porta alcuna protesi, magari li ha utilizzati in passato ma non è mai riuscito a familiarizzare con gli ausili protesici.
Per sua fortuna però è un sordo cosiddetto post verbale, è divenuto tale dopo aver acquisito con efficacia la capacità di esprimersi oralmente, per cui utilizza i pochi, scarsi e non amplificati artificialmente residui uditivi di cui è ancora in possesso, esclusivamente per modulare a un tono conveniente, senza suscitare allarmismi o stupore negli interlocutori, il volume della sua stessa voce.
Nel complesso, in questa varietà di persone sorde si nota che non hanno risentito in particolare dell’apprendimento della lingua madre cui sono stati esposti, in compenso per la comprensione in entrata ambedue fanno comunque pieno affidamento sulla lettura labiale e più specificamente sul potere dell’osservazione.

La lettura labiale non è di per sé particolarmente difficile da apprendere, ci riescono facilmente anche le persone udenti cui non è necessaria, neanche è una prerogativa naturalmente acquisita dalla persona sorda, magari in virtù di qualche fattore genetico connaturato, come normalmente si crede.
Semplicemente, la lettura labiale è un aspetto del più vasto campo dell’attenzione: tutti i sordi in genere, hanno sviluppato con il tempo la capacità non tanto di osservare in sé, ma di tenere desta l’attenzione per un tempo più lungo della norma. Il che equivale all’ascolto attento.
I sordi osservano attentamente, non perché abbiano una vista d’aquila, ma perché l’occhio è il loro principale organo sensoriale per l’input sensoriale in arrivo, quindi è più allenato a cogliere i particolari significativi.

Una persona cieca non ha un udito migliore di un normodotato, semplicemente ha allenato l’attenzione uditiva di modo da connetterla mnemonicamente ai particolari: è il motivo per cui un cieco riconosce una persona sentendo come cammina.
Non significa che sente di più, solo che sfrutta meglio il proprio canale sensoriale integro, identifica quel suono, e solo quello, con le proprie uniche sfumature, ripetuto e ricordato, come associato a quella persona.
Così il sordo non vede perché possiede più diottrie, ma è allenato all’osservazione, con il tempo e con l’attenzione allertata, tenuta alta per tempi più lunghi, “sente” non tanto quello che si dice ma come viene detto, la particolare configurazione di mimica labiale, ripetuta più volte, è mnemonicamente associata a un nome, un verbo, un predicato, e ne confermano il significato l’atteggiamento, la postura, l’espressione lieta o alterata, interessata o annoiata, sincera o di maniera, interrogativa o assertiva.

Finora abbiamo citato i classici esempi che fanno affermare a molti che la sordità è una disabilità “invisibile”.
In realtà, il termine invisibile nella letteratura medica non si riferisce tanto alla disconoscenza della disabilità nel contesto sociale, appunto perché nascosta, anche se quest’ultima è un’eventualità reale.
Il termine “invisibile” riferito alla sordità fa invece riferimento al carattere subdolo dell’epoca e del modo d’insorgenza; poiché l’iter riabilitativo è tanto più efficace, quanto più precoce è l’intervento medico specialistico multidisciplinare, la patologia acustica non immediatamente riconosciuta e acclamata comporta specifiche conseguenze negative.
L’invisibilità fa quindi riferimento piuttosto alla mancata evidenza immediata.
Spesso la sordità è diagnosticata solo a seguito di un evidente ritardo nella comparsa del linguaggio, quindi già a qualche anno dalla nascita, quando il protocollo riabilitativo prevede immediato intervento multidisciplinare nell’ordine di pochi mesi.

Questo è il motivo per cui la legge, ci riferiamo qui alla legge quadro delle persone sorde profonde, la 381/1970, prevede specifici provvedimenti per i sordi preverbali, identifica cioè inequivocabilmente sordi in cui il ritardato intervento, proprio a causa del fattore di invisibilità, comporta conseguenze nell’acquisizione della lingua verbale, tutti coloro riconosciuti con tale grave deterioramento uditivo diagnosticato prima del compimento di dodici anni di vita, età per convenzione accettata come limite per la completa acquisizione della lingua orale.
Altre volte invece la sordità è del tutto evidente, si può facilmente presumere e immaginare grazie alla presenza di una protesi più o meno eclatante, sia questa un semplice retro-auricolare analogico o digitale o un più sofisticato e robotico impianto cocleare.
Queste persone, la cui sordità ci appare quindi in qualche modo recuperata, magari solo in parte, dagli ausili indossati, possono esprimersi perfettamente nella norma con la loro lingua in modalità oralista.

Esistono però anche sordi con protesi o impianto che incredibilmente, malgrado le supposizioni iniziali di totale presidio risolutivo attribuite alle protesi, si esprimono invece ugualmente male oralmente, e a fatica; dato ancora più sconcertante, l’assenza assoluta di melodia, con toni di voce gutturali, metallici, talora del tutto afoni.
Questo dipende dal fatto che nessuna protesi è miracolistica, con buona pace di certe associazioni, qualsiasi ausilio protesico implica sempre e comunque il supporto di un lungo e impegnativo iter riabilitativo multidisciplinare.
Mancando il quale nessuna protesi è di per sé efficace e risolutiva in toto.
Compreso il famoso, o famigerato che dir si voglia, impianto cocleare: è anch’essa una protesi a tutti gli effetti, per esempio come tutte le protesi è, infatti, tarata, “mappata” sulle esigenze del sordo, ed è solitamente disattivata durante la notte e in altri momenti di disuso nella giornata.
Ne consegue in definitiva l’ovvia conclusione che il processo riabilitativo, dipendendo per natura dall’interessato e dal suo contesto esistenziale di supporto, è soggetto a troppi parametri che ne influenzano l’esito, in un senso o nell’altro. Di qui gli esiti diversi.
L’emblema della sordità ci appare immediatamente in tutta evidenza allorchè notiamo una persona che, protessizzata o meno, comunica speditamente con altri, sordi o udenti, utilizzando una lingua segnata, muovendo abilmente le mani nell’aria, giostrando sulle diverse dimensioni del corpo, con la postura e l’espressività del viso, talora mimando i termini oralmente con o senza emissione di suono.
Nulla a che fare con un linguaggio a gesti, una mimica o una pantomima, è un vero metodo di comunicazione visiva segnante, disciplinato da regole, norme, convenzioni di origine secolare proprie dalla comunità locale che la usa, cosicché assurge con pieno titolo alla dignità di lingua, con tanto di grammatica, sintassi, semantica propria.
L’uso del canale visivo segnante, più specificamente la conversazione in una lingua segnata, di per sé uno spettacolo affascinante, con un che di artistico, di magico, di musicale, è la quintessenza di una comunità sorda.

La lingua dei segni è prerogativa di qualsiasi specie di persona sorda; in genere, dobbiamo dire che i sordi che acquisiscono naturalmente, spontaneamente, per educazione e apprendimento da esposizione, una lingua segnata, già che siamo in Italia ci riferiamo alla Lingua Italiana dei segni, la LIS, nei primi anni di vita, hanno generalmente genitori sordi segnanti e/o oralisti.
La LIS è magistralmente, di diritto, una lingua fiabesca e favolosa, ma in particolare è elisir unico e insostituibile di una categoria di sordi esclusa in misura totale dalla dimensione sonora.
Coloro cioè che non hanno alcuna cognizione della sensazione sonora, e nessun residuo uditivo sfruttabile: specialmente i bambini sordi di questo tipo nei tempi previsti, non potranno mai apprendere la lingua scritta e parlata al modo dei bambini udenti, con le conseguenze del caso.

Perciò per loro la lingua segnata è letteralmente un salvavita.
L’esposizione alla lingua orale è requisito indispensabile al suo apprendimento; allorchè l’input orale è ridondante, cozza contro un muro di gomma, torna indietro e non è recepito in alcun modo per motivi vari, che vanno dall’assoluta assenza di residui uditivi, oppure lo scarso o nullo sfruttamento degli stessi, se presenti, con ausili protesici di diversa natura, talora anche per una difficoltà intrinseca alla persona dell’uso degli ausili, fosse pure per pigrizia o indolenza o incapacità individuale o dei rieducatori, allora la LIS diviene un ‘autentica manna divina.
Allora lo sfruttamento del canale sensoriale integro, quello visivo, è l’unico che impedisce il ritardo cognitivo e intellettivo in particolare del bambino ma anche dell’adulto sordo, favorendone l’inserimento umano e sociale, evitando un disagio irrecuperabile.
Perché non si sfugge: l’oralismo è intimamente connesso al sentire.
Se non si sente nulla, non c’è alcuna possibilità oltre la LIS, non si ricava sangue dalle rape.

I sottotitoli, le protesi, la logopedia ecc. vanno bene per tanti sordi; per alcuni, pochi o molti che siano, necessita la LIS.
La sordità è una cosa grave, perciò seria, nessuno può essere lasciato indietro.
Non si può costringere a sentire chi non è in grado di farlo, non si può forzare a parlare chi non ha sensibilità sonora.
Appare logico a chiunque che restituire in toto l’udito è la soluzione più semplice, e che il perfetto oralismo integri socialmente come nient’altro.
Ma se non si sente, e quindi non si parla, non ha alcun senso negare alternative valide.
Negare la dignità di lingua alla LIS, ridurla al capriccioso rituale di un pugno di testoni scansafatiche, significa dichiarare il falso sapendo di mentire, manifestare ottusamente la propria ignoranza, seguire colpevolmente logiche di profitto di alcune lobbies o gruppi di pressione.
Senza contare che questi sordi, molti o pochi anche qui non importa il numero, imparano la LIS per esposizione e, più tardi, pervengono anche se a fatica e non poche difficoltà alla lingua orale per apprendimento, proprio in virtù delle conoscenze linguistiche apprese segnando, e che ne hanno salvaguardato il normale sviluppo cognitivo nell’età della crescita e della interazione comunicativa con il proprio habitat.
Anche molti sordi oralisti, in genere sordi figli di udenti, apprendono la LIS durante l’infanzia o l’adolescenza, o in un secondo momento, sono sordi che parlano un italiano perfetto, scelgono di imparare la LIS e diventare bilingui. Per loro, è come vivere la vita con un punto di osservazione doppio, arricchire la propria esperienza, esprimersi in modalità bimodale, e quindi pluralista.
La sordità, in definitiva, esiste con una sola dimensione, capirlo è una questione di cultura.
Per questo, in un’epoca di droghe e dipendenza, vale la pena di raccomandare a tutti, e non solo alle persone sorde: fatevi.
Fatevi di cultura; vi creerete un’indipendenza formidabile.

Bruno Izzo

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